VALERIO CASTELLO UN PITTORE PROIETTATO NEL FUTURO

castello v. allegoria dell'abbondanza fondazione carige

Nato a Genova nel 1624 e figlio del pittore Bernardo Castello allievo del Semino e più tardi seguace di Luca Cambiaso, Valerio non fu certamente influenzato nell’arte pittorica dal padre che morì quando egli aveva solo cinque anni, anzi la madre cercò d’indirizzarlo verso gli studi letterari. Molto presto, a detta del Soprani, venne invece dirottato verso l’esercizio della pittura per la quale dimostrò grande inclinazione. I suoi primi maestri furono il Fiasella e Gio’ Andrea De Ferrari ai quali però non può considerarsi debitore se non per la tecnica meccanica di preparare i colori e le tele, infatti nel panorama artistico culturale del tempo egli può ben essere considerato un attento autodidatta rivolto a cogliere ogni espressione artistica fuori dalla ristretta e provinciale area del genovesato. Perin del Vaga ed il Procaccini, poi la grande lezione di Rubens e Van Dick, mediatori di alcuni elementi della pittura veneziana del Veronese ed ancora il Correggio ed il Parmigianino, lo portarono a far maturare il suo genio libero ed indipendente per mezzo del quale realizzò nuove ed ardite soluzioni formali, quel gusto del non finito pieno d’ una sensualità  non priva d’ un certo languore, un segno grafico spezzato e guizzante che rappresenta quasi una firma nelle sue opere. Valerio fu un artista dal tratto veloce, tanto che alcuni suoi contemporanei criticarono il suo disegno, a loro avviso poco attento e  quasi bozzettistico, non capendo che la sua sensibilità poetica lo portò a privilegiare la ritmica composizione dei volumi che non l’ ottica verità del particolare. Tutto questo lo portò a creare uno stile unico e personalissimo che si staccò nettamente dalla cultura post-controriformistica della prima metà del XVII secolo, quasi un profeta pre-settecentesco e del gusto barocco. Nei suoi dipinti si riscontra una perfetta fusione tra scenografia ed azione,  colmi di quel sentimento romantico insito nel suo animo condizionato solo dalla sua libertà creatrice, che lo portò a realizzare in un vertiginoso lirismo opere di grande spessore che in un tumultuoso serpeggiare di linee curve e spezzate  sfacevano i volumi per trasformarsi in simboli pittorici d’una rappresentazione poeticamente illusiva.  La morte lo colse nel 1659 alla giovane età di 35 anni ucciso  dalla peste che alla metà del ‘600 decimò la popolazione della città di Genova, nonostante ciò, possiamo affermare che non solo nelle opere di Gregorio De Ferrari e del Lissandrino ma in gran parte della produzione veneziana ed europea del XVIII secolo è riconoscibile l’impronta di questo grande maestro genovese.

Nella foto ” Allegoria dell’ Abbondanza” dipinto realizzato ad olio su tela appartenente al patrimonio artistico della banca CARIGE di Genova.

P.S. per una catalogazione delle opere di questo maestro ed approfondimenti vedi il libro “Valerio Castello” del prof. Camillo Manzitti  edito da Umberto Allemandi

LIGABUE ED IL MALE DI VIVERE

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Una mostra sulle opere di Antonio Ligabue ( Zurigo 1899 – Gualtieri 1965 ) è stata allestita nella Loggia degli Abati del Palazzo Ducale di Genova. La mostra propone 80 opere tra dipinti, disegni e sculture di questo artista che da vivo ebbe pochissimi estimatori. Tra i dipinti vi sono animali selvaggi che lui aveva visto impagliati nei musei di storia naturale, nei circhi e sulle figurine liebig, animali domestici con i quali aveva un rapporto d’ affezione e amore, quell’amore di cui aveva disperatamente bisogno ma che sempre gli fu negato dato il suo stato mentale ed il suo aspetto che incuteva repulsione. Su oltre 800 dipinti realizzati nella sua vita più di 100 sono autoritratti che sembrano voler affermare il suo desiderio di essere visto ed apprezzato nonostante il suo aspetto,  secondo il Parmiggiani, il motore della mostra è  proprio negli autoritratti nei quali il pittore esprime tutto il suo male di vivere e la sua sofferenza…sarebbe riduttivo affermare che ci troviamo solo di fronte ad un pittore naif o  di un artista segnato dalla follia ( diversi furono i suoi internamenti in ospedali psichiatrici ) ma ad un espressionista tragico che fonde esasperazione visionaria con gusto decorativo. Nei suoi dipinti d’ animali selvaggi sono quasi sempre presenti due fattori, il primo la violenza della natura che porta il più forte a sopraffare il più debole, un memento mori che permea le sue opere di tristezza stemperata dai vivacissimi colori con i quali le realizza e il senso di disfacimento e di sporcizia data dalla presenza di insetti come le mosche e gli scarafaggi che allegoricamente ricordano la sua triste condizione di estrema povertà. La mostra terminerà il 1 luglio 2018 andatela a vedere, molte delle opere esposte sono appartenenti a collezioni private e quindi visibili solo occasionalmente.

IL PROLOGO D’ UN PARCO STUPENDO

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Lo scenografo Michele Canzio realizzò il parco della villa Durazzo Pallavicini tra il 1840 ed il 1846, lo realizzò come fosse un’opera teatrale ripartita in tre atti con un prologo ed un epilogo, nel prologo si passa da una intricata foresta di lecci e d’allori, che configura allegoricamente le difficoltà della vita quotidiana ( inevitabile non pensare alla “selva oscura” dantesca), ad un piccolo edificio in stile neoclassico decorato con quattro statue del Rubatto che raffigurano Ebe la coppiera degli dei che rappresenta la gioventù, Flora la dea che rappresenta il rifiorire delle piante dopo la stagione invernale, Leda che rappresenta la donna  per antonomasia e Pomona dea dei frutti, da questo edificio si accede ad un viale che conduce ad un arco di trionfo decorato con statue del Cevasco con scritta un’epigrafe che invita il visitatore ad abbandonare le preoccupazioni ed i dolori che condizionano il suo vissuto ed a godere invece delle opere grandiose della natura, un vero e proprio cammino iniziatico che lo porterà alla fine a riconsiderare quali veramente siano le cose importanti per la nostra vita.

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UN ALBERGO 5 STELLE PER I POVERI DI GENOVA

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Nel XVII secolo una epidemia di peste colpì la città di Genova, quando scoppiò nel 1655  ebbe effetti terrificanti giacché su una popolazione di 90.000 persone ne uccise ben 80.000 lasciandosi alle spalle una spaventosa carestia per la mancanza di uomini dediti al lavoro e la cessazione quasi totale delle attività di commercio. Il numero dei poveri e dei disperati divenne così elevato che il noto filantropo genovese Emanuele Brignole  insieme ad Oberto Torre pensarono di finanziare un’idea  che prevedeva, su progetto dell’ architetto Stefano Scaniglia da Sampierdarena, la costruzione d’ un grande albergo destinato ad ospitarli. Nel 1661 la prima parte dell’ edificio fu completata grazie alle 100.000 lire versate dal Brignole per finanziare l’ opera ed alla sua morte egli lasciò metà del suo patrimonio a questa nuova istituzione creata poco fuori delle mura di Genova sulla collina di Carbonara. Il Brignole volle esser sepolto sotto una lapide senza nome nella chiesa del complesso vestito con gli abiti dei ricoverati. Oggi l’ Albergo dei Poveri è sede della facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Politiche dell’ Università di Genova.

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L’ albergo dei Poveri in una litografia acquarellata  del Durau realizzata nella prima metà del XIX secolo

C’ERA UNA VOLTA VILLA SAULI

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La villa Sauli, che ha il suo attuale ingresso in via Colombo, risale al XVI secolo, fu edificata su progetto di Galeazzo Alessi ed intorno ad essa esisteva un grande parco conosciuto come “Orti Sauli” , la villa era conosciuta come “La Vigna” perché la sua facciata era decorata a tralci di vite, nell’ottocento perse i suoi giardini trovandosi in mezzo alle trasformazioni dovute al nuovo piano urbanistico che stravolse l’ aspetto di questa zona di Genova, l’ edificio finì per essere adibito prima come magazzino e poi diviso in appartamenti perdendo quasi tutto del suo originario splendore. Oggi è ancora lì soffocata dalle case circostanti e da una sopraelevazione che ne appesantisce la struttura. Un’anonimo del 1818 così la descriveva: Il palazzo Sauli é ornato da marmo alla porta con altri moduli in rustico. Il portico o atrio ne è formato da ventotto colonne doriche di marmo bianco con quattro busti di marmo. Nella facciata del secondo ordine ammiransi pure altre dodici colonne ioniche ai tre lati: vedonsi poi i piedistalli, su cui abbiano ad essere posate le altre corrispondenti a quelle del primo ordine suaccennato. Alla seconda loggia sopra la porta d’ingresso vedonsi bei rilievi nel volto con quadretti e fioroni nel mezzo, e sette altri busti di marmo. La facciata poi verso il giardino è oltremodo bella ed elegante.

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Villa Sauli in un dipinto realizzato nel 1850 c.  dal pittore Domenico Cambiaso ( 1811-1894) custodito nei depositi del museo di Palazzo Bianco