IL FORTE MONTERATTI

Sin dall’anno 1747 esistevano sul Monte Ratti di Genova ridotte a difesa di questo punto strategico alto 560 metri s.l.m., postazioni che peraltro si rivelarono insufficienti e facilmente conquistabili da parte degli eserciti nemici, così, dopo che i vincitori di Napoleone donarono ai re Sabaudi Genova ed i suoi possedimenti, il “Genio Piemontese” decise di costruire una fortezza in sito con annessa caserma. Nata con l’obiettivo di difendere Genova dai nemici provenienti dal nord, fu costruita anche perché i Savoia erano a conoscenza dell’insofferenza con la quale i genovesi avevano preso atto dello status quo per il quale la loro indipendenza millenaria era stata definitivamente perduta. Il forte fu costruito sulla piana in cima al monte tra il 1831 ed il 1842, formato da una lunga caserma con il fronte incombente sulla città poteva acquartierare sino a 440 soldati ai quali se ne potevano aggiungere altri 660 che lì si potevano accampare “paglia a terra ” ( e con questa espressione militaresca si capisce che la situazione alberghiera lasciava un po’ a desiderare ), concludendo la guarnigione poteva contare su 1100 soldati pronti a difendere Genova o a sedare qualsiasi tentativo di rivolta, Quando i Savoia nel 1849 furono sconfitti dagli austriaci nella prima guerra d’indipendenza ed il re Carlo Alberto abdicò a favore di suo figlio Vittorio Emanuele II, dopo l’armistizio di Vignale accettato dai Savoia, i genovesi si ribellarono, in parte perché le idee mazziniane avevano fatto presa su molte persone, un po’ perché molti considerarono la resa all’Austria un atto di codardia e un po’ perché molti avevano paura di ripiombare sotto la dominazione dei crucchi. I moti si conclusero con il ” Sacco di Genova ” Il generale dei bersaglieri Alfonso La Marmora ordinò ai suoi soldati di mettere a ferro e fuoco la città, i sardo- piemontesi dilagarono per le vie predando ed uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e religiosi, quella che Vittorio Emanuele il ” re galantuomo ” aveva definito in una lettera recapitala al suo generale: ” …vile ed infetta razza di canaglie … ” p.s. gli interni della fortezza sono visitabili ( facendo Attenzione…. )

La Chiesa con la camera nuziale

” Non più mondo, non più peccato ” pensò Caterina Fieschi sposata Adorno nel 1473 dopo aver avuto la visione di Cristo portacroce morto per lei e per tutti in remissione dei peccati. Questo episodio, che segnò un cambiamento radicale nella vita di questa donna straordinaria, avvenne per tradizione in quella che si pensa fosse la sua camera nuziale nel palazzo degli Adorno, lì dove oggi sorge la chiesa di San Filippo Neri in via Lomellini e più precisamente nella cappella della navata sinistra a lei dedicata. Vi ho già raccontato in un altro mio post di questa santa donna il cui corpo incorrotto è custodito in una cassa di cristallo e bronzo nella chiesa della S.S. Annunziata di Portoria, in questo mio scritto voglio farvi partecipi di una cosa di cui non tutti sono a conoscenza, nella cappella a Lei dedicata, vi è una pala d’altare dipinta dal celeberrimo pittore secentesco Domenico Piola che raffigura il momento in cui Caterina ebbe la sua prima visione mistica, dietro questa pala esiste una grande nicchia nascosta dal dipinto nella quale, in origine, veniva custodito un gruppo scultoreo rappresentante un compianto di Cristo, capolavoro dello scultore Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739 ), questa scultura era mostrata ai fedeli solo in occasione della Settimana Santa, per far ciò veniva rimossa la pala d’altare, dopodiché, dopo la santa Pasqua, veniva nuovamente nascosta dietro il dipinto . Oggi, per ragioni di conservazione, il gruppo scultoreo é stato rimosso dalla nicchia dove per secoli fu ospitato ed é visibile in questo tempio capolavoro del barocco.

CROXETTI

I croxetti in lingua genovese o corzetti, che dir si voglia, sono una pasta tipica della Liguria, ne esistono di due tipologie, quelli della Valpolcevera che hanno la forma d’un piccolo otto e quelli del “Levante” cittadino che hanno una forma circolare, un po’ più grandi d’un’ostia per intenderci, e sono stampati al centro con motivi diversi a seconda del gusto del mastro pastaio che li prepara. Lo stampo é fatto in legno, simile ad un timbro circolare e questo accorgimento fu fatto perché la pasta così preparata si adattava meglio ad accogliere il condimento, ovviamente, oltre la produzione fatta a mano sempre più rara, esiste anche una produzione industriale dei croxetti. Questa pasta ha un’origine molto antica, i croxetti vengono citati in documenti che risalgono al basso medio evo, sembra che le famiglie patrizie genovesi, che oltre a grandi appezzamenti di terreno possedevano anche i mulini ed i forni, si facessero fare dai loro cuochi i croxetti i quali da una parte dovevano aver impresso lo stemma del loro casato e dall’ altra una piccola croce stilizzata ( croxetta in lingua genovese ) da cui presero il nome. Nella foto croxetti a-o tòcco de tomate ( pomodori)

Il ponte dei suicidi

A Genova il Ponte di Carignano collega i colli di Sarzano e quello di Carignano scavalcando la valletta del Rio Torbido, come già vi dissi in un mio precedente post, voluto dalla famiglia Sauli per facilitare l’ingresso alla loro stupenda e costosissima basilica, fu costruito dal 1718 al 1724 su committenza di Domenico Sauli dall’architetto francese Gerard De Langlade. Alla fine del XVIII secolo, con l’arrivo dei francesi e la Serenissima Repubblica in piena decadenza, la città ed i suoi abitanti dovettero affrontare una delle pagine più buie della loro storia millenaria, il Generale André Massenà, comandante francese della piazzaforte di Genova si trovò circondato dalle truppe austro- inglesi, che per mare e per terra impedirono qualunque tipo di approvvigionamento alimentare ai genovesi, in questo periodo, finite le scorte di cibo, la fame e la disperazione dilagarono in città, dove gli storici dell’epoca ci ricordano che avvennero tremende risse per impadronirsi d’una lattuga o violenti pestaggi per un carciofo o un pomodoro, nessun animale domestico fu risparmiato, cani e gatti furono mangiati poi, finiti quelli, la gente divorò i topi ed i pipistrelli ( si ragazzi anche i genovesi come i cinesi, ma erano in stato di necessità ), quando non restò più niente, fu la volta degli insetti, anche i più repellenti, dopodiché la gente cominciò a morire d’inedia per le strade, come avveniva ai tempi della peste, fu allora che diverse persone approfittarono del Ponte di Carignano per metter fine ai loro giorni, fu coniato in quei miseri tempi il detto: ” Piggià o ponte de Caignan pe-o schaen da porta ” ( prender il ponte di Carignano come fosse lo scalino per entrare dalla porta di casa ), infine i francesi arrivarono ad accordarsi con gli anglo-austriaci e se ne andarono lasciandosi alle spalle una città che di ” Superba ” non aveva più niente.

“Nunziata del Guastato” un nome sfortunato

A Genova era un sabato come gli altri quel 24 ottobre del 1942, i bambini vennero portati ai giardinetti a giocare, gli scagni del porto aprirono le loro saracinesche, la città si risvegliò con i suoi bar e le sue botteghe, quando ad un tratto la sirena che preannunciava un attacco aereo prese a suonare alla disperata, 95 aerei da bombardamento della Royal Air Force sganciarono su Genova 144 tonnellate di bombe colpendo anche la basilica dell’ Annunziata del Vastato o Guastato che dir si voglia, il 7 novembre un’altra incursione di bombardieri della R.A.F sganciò sulla città 237 tonnellate di bombe e la basilica fu nuovamente colpita, quella che lo storico Federico Alizieri nel 1847 aveva definito chiesa d’una “opulenza” di bellezza arcana, fu ridotta ad un cumulo di macerie fumanti. Vastato significa rovina, era il nome del sito dove sorse la basilica terminata nel1530, in precedenza la località era detta ” il Prato” perché era una vasta zona erbosa fuori delle mura che dal mare si estendeva sino alle falde del colle di Carbonara, fu detta poi Vastato o Guastato perché l’area, dapprima spianata per ragioni difensive, fu usata come discarica dei detriti delle demolizioni fatte per allargare la piazza davanti alla basilica. Oggi questo tempio ci appare ancora splendido, i restauri del dopoguerra sono riusciti in parte a restituirgli la sua incredibile bellezza e ancora una volta ci ricordano che la guerra é sempre una maledizione senza se e senza ma, perché é la negazione del divino che alberga in ogni essere umano.
Nella foto la navata centrale con il Cristo crocifisso di Giacomo Antonio Ponsonelli ( Massa 1654 – Genova 1735), nella volta del coro spicca l’affresco che rappresenta l’ Assunzione di Maria in Cielo di Giulio Benso ( Pieve di Teco 1592 -1668).

La cappelletta per il figlio perduto

Cornigliano é un quartiere di Genova situato a ponente, per alcuni storici il suo nome deriva dalla famiglia romana dei Cornelii che in sito avrebbero avuto possedimenti terrieri, per altri il toponimo avrebbe origine ancora più antica e deriverebbe da “corito” ( personaggio della mitologia greca ) di Giano il dio bifronte al quale alcuni attribuiscono anche l’origine del nome di Genova. Il ponte che unisce le due sponde del torrente Polcevera alla sua foce, consentendo il transito di carri e viandanti tra Sampierdarena e Cornigliano, ha origini che si perdono nella notte dei tempi, sin dal XII secolo esisteva una struttura in legno ma fu solo nel sesto decennio del 1500 che fu costruito un ponte in muratura per volontà del doge Benedetto Gentile, il cui figlio morì affogato cercando di guadare il torrente in piena in sella al suo cavallo. Il ponte, che da sempre é chiamato di Cornigliano, per volontà testamentaria del Gentile doveva avere al centro una Cappelletta dedicata alla Madonna nella quale in determinate festività doveva celebrarsi una messa in suffragio per lui e per suo figlio. La Cappelletta ancor oggi esistente, seppur molte volte ristrutturata, fu protagonista d’un incontro storico eccezionale, qui davanti alla Madonnina nel 4 Giugno del 1800 s’incontrarono il generale di Bonaparte Massena che difendeva Genova, il generale austriaco Peter Karl Ott Von Bàtorkéz e il vice ammiraglio britannico George Elphinstone I visconte Keith, gli austro inglesi da quattro mesi assediavano la città per mare e per terra non permettendo nessun approvvigionamento alimentare alla popolazione, pensate che i prigionieri austriaci chiusi nella darsena adibita a prigione, arrivarono a mangiarsi le scarpe di cuoio per non morire di fame. Massena firmò la capitolazione, ma ottenne l’onore delle armi e se ne andò con il suo esercito sembrando quasi un vincitore anziché uno sconfitto, cosa che é ricordata anche da una lapide posta lì successivamente.

Storia d’una porta perduta e ritrovata

Nel XIV secolo le mura difensive erette dai genovesi per far desistere l’imperatore Federico Barbarossa dall’ideuzza che s’era fatto di radere al suolo la città ribelle e sterminare tutti i suoi abitanti, non furono più sufficienti perché il tessuto urbano era notevolmente in espansione e quindi si rese necessario allargare la cinta difensiva e potenziarla. Uno dei varchi di queste nuove mura fu la Porta detta dell’Olivella che si trovava sopra il convento di Santa Caterina di Portoria nella zona dove successivamente sarebbe stato edificato l’Ospedale di Pammatone ( oggi Palazzo di Giustizia ), da questa porta si accedeva all’antico quartiere di Portoria, singolare fu che, per un certo periodo, custode di questo varco fu messer Domenico Colombo, padre di Cristoforo lo scopritore delle Americhe, che lì vicino abitò per molti anni. Nel XVI° secolo vennero costruite nuove possenti mura, il vecchio varco dell’ Olivella fu interrato ed il nuovo accesso alla città fu dalla porta di Santo Stefano detta anche “Degli Archi” perché, oltre al fornice centrale, ne aveva due più piccoli ciascuno per ogni lato. Passarono altri secoli, sino ad arrivare al XIX°, quando Carlo Barabino riprogettò il centro della città ed il Parco dell’ Acquasola, allora la porta dell’Olivella venne dissotterrata dandole l’aspetto odierno, quando da via Claudio Carcassi ci dirigiamo verso corso Andrea Podestà dobbiamo necessariamente attraversarla, ma a nessuno viene in mente che lì si sta passando sotto 700 anni di storia.

Il Castelluccio di Pra’

Pra’ é un quartiere del ponente genovese, il toponimo deriva dal suo nome latino ” Prata Veituriorum”. I Veiturii erano antiche popolazioni che qui vivevano in età antecedente alla dominazione romana, per cui Pra’ deve scriversi con l’apostrofo non con l’accento poiché é la derivazione d’una elisione del suo antico nome. Anche qui, come sulle altre coste del genovesato, le incursioni di navi nemiche e dei pirati saraceni erano all’ordine del giorno nel XVI° secolo, così la Serenissima Repubblica di Genova qui, come in altri luoghi, fece costruire un’opera di difesa che aveva il duplice scopo di avvistare i vascelli nemici dando l’allarme dell’ incombente pericolo alle popolazioni circostanti mediante segnali di fumo e di fornire un temporaneo rifugio a coloro che non potevano o non volevano fuggire nei paesi dell’entroterra. Il Castelluccio di Pra’ assolveva proprio a questa funzione, fu costruito nel XVI° secolo a levante dell’antico borgo in una zona semi deserta dove in sito esisteva solo una casa colonica e la torre Cambiaso, la sua posizione era strategica, perché eretto su uno sperone di roccia alto circa 20 metri che dominava la spiaggia. originariamente di forma quadrata con bastioni a levante ed a ponente, quando fu costruita la ferrovia, fu demolito l’angolo a nord. Durante la seconda guerra mondiale era lì una batteria antisbarco tedesca. Come molte fortezze liguri anche questa avrebbe bisogno d’essere valorizzata e restaurata.

ALBERGO GIUSTINIANI

Gli “Alberghi dei nobili” erano antiche istituzioni sociali e politiche tipiche della Repubblica Genovese, queste associazioni erano unioni di famiglie sorte in età consolare con l’obiettivo di conciliare vertenze e liti tra quanti ne facevano parte, aiutarsi vicendevolmente, difendere i membri da qualunque attacco esterno, perpetuarne gli usi e le tradizioni; per favorire tutto ciò gli “Alberghi” imponevano la continuità della residenza da parte delle famiglie aderenti che avevano abitazioni adiacenti munite talvolta d’una propria chiesa e d’una torre di difesa, praticamente un piccolo borgo dentro la città, era anche favorita la “endogamia” e cioè sposarsi tra i membri dell’albergo in modo da creare nelle future generazioni legami di sangue e parentela. All’ albergo Giustiniani appartenevano le famiglie dei Longo, dei Moneglia e dei Passano. L’ albergo dei Giustiniani fu fondato nel 1347 per ragioni più che altro commerciali, legate quindi alla “pecunia” che comprendevano la gestione della “Maona” (*) dell’isola greca di Chio restata sotto il dominio dei Giustiniani sino al 1566 quando l’impero degli Ottomani la conquistò e martirizzò tutti i giovani Giustiniani che si rifiutarono di convertirsi all’ ISLAM. Il Palazzo Giustiniani di Genova, che troneggia sull’omonima piazza nel centro storico, in realtà è formato da più edifici, quello contraddistinto dal numero civico 6 fu costruito alla fine del ‘500 dal cardinale Vincenzo Giustiniani (1519- 1582) generale dell’ordine dei Domenicani, la piazza, che é una delle più grandi del centro storico di Genova misurando 12 metri x 26 metri, ricalca grossomodo il tracciato urbano medioevale.
(*) Maona é una parola derivante dall’arabo, fu un’associazione avente carattere finanziario, garantita dalla Repubblica di Genova ma con un’amministrazione autonoma, in pratica i Giustiniani furono i principi dell’isola di Chio per oltre 200 anni.

La Torre che c’é ma non si vede

Delle oltre 70 torri che caratterizzarono nel medio evo la fisionomia della città di Genova, ne son rimaste in piedi ben poche, una di queste é la Torre dei Piccamiglio alta 38 metri e suddivisa in 8 piani dei quali i primi 5 costruiti in pietra nera di Promontorio, presa da una cava che anticamente era ubicata sul promontorio dove alla sua estremità sorge la ” Lanterna “, promontorio oggi non più esistente e gli ultimi tre piani in laterizio, coronati sulla cima da una triplice cornice d’archetti pensili sempre più aggettanti. La torre fu costruita nel XIII secolo a difesa della sottostante chiesa gentilizia di San Marcellino, delle case di proprietà dei Piccamiglio oltre che del loro portico che consentiva di svolgere le operazioni di carico e di scarico delle merci dalle navi ancorate presso la “Ripa Maris “, oltreché svolgere atti notarili anche in avverse condizioni climatiche, già perché i Piccamiglio fecero la loro fortuna come mercanti e navigatori costruendo la loro sede consortile nella zona di “Fossatello” che a sud comunicava con lo scalo marittimo ed a Nord con la zona del ” Campo ” attraversata dal “Carrubeo Recto ” che era la principale arteria di percorrenza del ” Burgus ” ( i sobborghi della città di Genova ). I Piccamiglio, d’origine teutonica, si trasferirono a Genova verso l’anno 1000 ed i loro membri ricoprirono cariche prestigiose in seno alla Serenissima Repubblica di Genova tanto da essere enumerati tra i 74 Alberghi (°) della città nel 1414, poi, come spesso accade nella storia, la famiglia si estinse, ma a loro memoria restò la torre, invisibile ai più, che ancora oggi svetta verso il cielo letteralmente affogata dalle alte palazzate che la circondano.

(°) Gli ” Alberghi ” genovesi furono formati da famiglie nobili che, per meglio difendersi, decisero di vivere insieme, avevano una propria chiesa, un’insieme di case e solitamente una torre.

Forte Puin

Lungo la dorsale che divide la Val Bisagno dalla Val Polcevera a 508 metri d’altitudine sul monte Moisé sorge il forte Puin il cui toponimo deriva dalla settecentesca “Baracca di Puin “situata pressappoco dove oggi é L’Ostaia de Baracche ( L’osteria delle baracche) qui il fratello di mia madre lavorava come barista prima che nel 1942 partisse per la campagna di Russia dalla quale non tornò più. Singolare il nome “Puin” che forse originariamente potrebbe esser stato “Poìn ” che in lingua genovese significa “padrino” e che si pronuncia appunto Puin. Sopra una ridotta preesistente costruita nel 1747 durante la guerra di secessione austriaca fu eretta dal genio sardo tra il 1815 ed il 1830 questa fortificazione che poteva ospitare una guarnigione fissa di 28 soldati i quali disponevano di due cannoni campali da 8, due obici, quattro cannoncini e due petrieri. Il forte, abbandonato definitivamente nel 1908, fu abitato per 20 anni da un privato al quale il comune lo diede in concessione e che lo restaurò a sue spese. Oggi é sempre di proprietà del comune di Genova e pur essendo in discrete condizioni di conservazione non é visitabile se non il sabato e la domenica rivolgendosi all’Associazione ” Forte Puin – Genova “, ma, durante la settimana, é meta di scampagnate e di picnic all’ aperto.

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A bandea de San Zorzo ( la bandiera di San Giorgio )

Come raccontato in un mio precedente post, il culto di san Giorgio fu introdotto a Genova dalle truppe dell’Imperatore d’oriente Giustiniano che fece guerra agli Ostrogoti nel 535 d.C. per riconquistare l’Italia. La città di Genova, che parteggiava per l’ imperatore, diventò una vera e propria testa di ponte per l’esercito bizantino che aveva come protettore San Giorgio, un personaggio mitico già a quei tempi. Il culto per questo santo si diffuse a tal punto nella nostra città da identificarsi con essa. Iacopo da Varagine ( Varazze) arcivescovo di Genova, nella sua “Legenda Aurea” associò il vessillo bianco crociato di rosso con l’immagine di San Giorgio nella seconda metà del XIII secolo, ma sin dal 1113 ” l’insigna cruxata comunis Janue” é rappresentata negli Annales Januenses. “Pé Zena e Pé san Zorzo ” era il grido di guerra dei genovesi e lo fu per secoli, il vessillo della città veniva custodito in una chiesa vicino al foro costruito dai romani che si presume fosse dove oggi possiamo ammirare la chiesa barocca dedicata a San Giorgio nel centro storico di Genova, da lì veniva esposto nelle processioni solenni o consegnato all’ammiraglio delle galee genovesi quando salpavano per dare battaglia.
Nella foto una litografia acquarellata che rappresenta l’ eroismo di un giovanetto genovese all’attacco di Metellino ( 1501) presa dal libro Storia popolare di Genova di Mariano Bargellini edito nel 1869

Un Altare da favola

La “Grande Genova” a ponente termina con il quartiere di Voltri, il toponimo deriva probabilmente dal fatto che anticamente il luogo fu abitato dalla popolazione ligure preromana dei Veituri, una popolazione combattiva, se si considera che nelle mappe antiche uno dei nomi con cui veniva indicato il sito fu Hasta Veiturium ( in latino hasta significa lancia ). A Voltri lungo l’antica via Emilia costruita dai romani nel 105 a.C. fu costruita dagli Ospedalieri di San Giovanni di Prà, nella prima metà del XIII secolo, una cappella dedicata a Sant’Erasmo protettore dei marinai, molti secoli dopo nel 1652 fu eretto il tempio che ancor oggi possiamo ammirare dedicato ai santi Erasmo e Nicolò. Gli interni della chiesa a tre navate sono fastosi, tra le splendide opere d’arte contenute, forse la più spettacolare é l’altare del Rosario costruito nel 1679, che con i suoi marmi policromi intarsiati e le sue colonne tortili realizzate in marmo rosso di Francia esalta la monumentale scultura della Madonna con il Bambino Gesù rappresentata con sulla testa la corona imperiale, opera del grande scultore genovese Domenico Parodi ( 1672 – 1742 ), la Madre di Cristo, lo ricordiamo, fu eletta dai Genovesi regina della città nel 1637. L’ artefice di questo splendido altare fu uno scultore solo recentemente riscoperto: il ” maestro marmararo ” Anselmo Quadro ( 1643 -1693 ).

Il Forte Diamante non brilla più

Sin dal lontano 1395 sul Monte Diamante a 667 metri s.l.m. , tra la val Polcevera e la Val Bisagno, esisteva un’antica postazione militare, l’attuale costruzione “Forte Diamante” fu eretta tra il 1756 e il 1759, costruita grazie al generoso contributo di 50.000 lire del marchese Giacomo Filippo Durazzo. Originariamente, sopra l’ingresso del forte esisteva una targa che ricordava questo gesto generoso e d’amor patrio, targa che oggi più non è in sito, perché qualcuno ha pensato bene di portarsela via come souvenir. Nella primavera del 1800 il forte difeso da circa 250 soldati al comando del francese Bertrand resistette all’esercito austriaco del generale Hohenzollern che li aveva posti sotto assedio, gli austriaci, ad un certo punto riuscirono a conquistare le ridotte dei “Due fratelli” che difendevano il forte Diamante ed intimò la resa a Bertrand dicendogli che altrimenti li avrebbe fatti uccidere tutti ” a fil di spada” la risposta di Bertrand fu: ” Signor Generale, l’onore che é il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il forte di cui mi é stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione e mi sta troppo a cuore , signor generale, di meritare la vostra stima per dichiararvi che la sola forma e l’impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare”. Il presidio non si arrese e la situazione si ribaltò quando da Genova arrivarono dei rinforzi che riuscirono a ricacciare indietro gli austriaci. La fortificazione che era dotata di 6 grossi obici e di due cannoncini fu definitivamente abbandonata nel 1914 e mai più utilizzata, neanche come attrazione turistica, un vero peccato perché questo é uno dei più bei forti di Genova.

“Capella de Luco” una chiesa per un santo foresto ( straniero )

Sant’ Eusebio é un borgo ubicato sulle alture che circondano Genova, prende il nome dalla sua chiesa le cui prime notizie risalgono al 1143 come “Capella de Luco” il toponimo deriva da “Lucus” che in latino significa bosco sacro. Eusebio da Vercelli nato a Cagliari nel 283 d. C. e morto a Vercelli nel 371 d. C. fu il primo vescovo di Vercelli e strenuo oppositore dell’eresia ariana, trovo singolare che tra tutti i santi nostrani a lui sia stato dedicato questo tempio, La chiesa, eretta da monaci benedettini provenienti dalla chiesa di San Siro di Struppa ( un tempo la zona era detta Molaciana ), costruirono qui anche un ospitale per i pellegrini; della costruzione originale resta la torre campanaria eretta in stile romanico. Nella chiesa attuale, più volte rimaneggiata, é una bella pala d’altare del pittore fiammingo Cornelis De Wael che rappresenta Sant’Eusebio tra i santi Giobatta e Sebastiano. In zona non ci sono ville del patriziato genovese, nel secolo scorso la località fu frequentata dai genovesi per le gite fuori porta, le scampagnate domenicali erano giustificate, oltre che per l’amenità del luogo, dalle numerose osterie e trattorie presenti ancor oggi qui. Nei miei ricordi di bambino sant’Eusebio é legato ad un buon panino di salame di sant’Olcese, fave fresche di giornata ed un bicchiere di vino bianco di Coronata, che aveva un sapore unico con un retrogusto di zolfo, un vitigno che non credo esista più. P.S. una volta il vino veniva dato anche ai bambini…. Nella foto la torre campanaria

Santa Maria in via Lata

A Genova, nel quartiere di Carignano c’é una salita che conduce alla piazza di Santa Maria in via Lata ove fu costruita l’omonima chiesa, per questo tempio edificato nel quarto decennio del 300 con la facciata in stile gotico a fasce alternate in marmo bianco e pietra nera di promontorio per volontà del cardinale Luca Fieschi, vale il detto: ” Se la fortuna é cieca la sfiga ci vede benissimo “, perché? ebbene ve lo racconterò in poche parole. Intorno a questa chiesa gentilizia della potente famiglia dei Fieschi sorgevano case ed un maestoso palazzo, forse il più sontuoso e bello della città, dalla sua posizione dominava tutta l’area circostante che, all’epoca in cui fu costruito, era scarsamente edificata, I Fieschi avevano amicizie altolocate sia a Genova sia Oltralpe e apertamente parteggiavano per il re di Francia, altra famiglia VIP del tempo fu quella dei Doria che invece avevano con la Spagna di Carlo V un rapporto privilegiato e che pian piano avevano oscurato la fama ed il potere dei Fieschi, fu così che Gian Luigi Fieschi, all’età di soli 24 anni, ordì una congiura nel 1546 che mirava a distruggere i Doria ed il loro potere. Naturalmente, come in tutte le congiure che si rispettano, il giorno prima Gian Luigi non mancò d’andare a trovare il vecchio Andrea Doria, che alla veneranda età di 80 anni aveva un sacco di magagne tra cui la gotta che spesso lo costringevano a stare a letto e d’ informarsi del suo stato di salute oltre che a quella di suo nipote Giannettino che Andrea aveva designato quale suo erede, mi pare di vederli, il vecchio ottuagenario seduto in poltrona e il Fieschi che gli dice: ” Comme te veddu ben e o te nevo comme o sta? ” e tanto pensava come ammazzarlo. Il giorno dopo, i seguaci dei Fieschi sfruttando l’effetto sorpresa, ebbero la meglio sui Doria, Giannettino alla Porta di San Tommaso fu ferito da un’archibugiata e poi finito con un colpo di scure, i congiurati conquistarono le porte della città e la darsena e qui subentrò la ” Sfiga” Gian Luigi Fieschi mentre conduceva i suoi armigeri all’ attacco della galea ammiraglia dei Doria , cadde da un pontile e la sua pesante armatura lo fece annegare in due metri d’acqua, morto il capo dei congiurati, le sorti della battaglia si invertirono e la vendetta di Andrea Doria fu terribile , tutti i Fieschi, tranne quelli che riuscirono a dimostrare la loro estraneità alla congiura, furono uccisi o cacciati in esilio ed i loro beni espropriati, il loro bel palazzo fu demolito sino alle fondamenta, così come tutte le case circostanti che a loro appartenevano, fu risparmiata solo la loro chiesa gentilizia dalla quale furono scalpellati tutti gli stemmi ed i fregi che inneggiavano alla grandezza dei Fieschi. Oggi, dopo esser stata chiesa, abbazia, mobilificio e magazzino, é sede della Confraternita di Sant’Antonio Abate ed anche atelier di restauro di Nino Silvestri, ma questa é tutta un’altra storia che vi racconterò in un’altra occasione.

Nicolò Tronci chi era costui?

Dalla stazione Brignole di Genova si arriva al mare percorrendo il viale delle Brigate Partigiane, da moltissimi anni sotto sopra per il rifacimento della copertura del torrente Bisagno. In fondo al viale, prospicente a quella che é la foce del torrente, fu collocata nel 1939 la statua detta del “Navigatore” inaugurata per la verità l’anno precedente dall’allora capo del governo Benito Mussolini al quale però, non essendo finita la scultura, fu mostrato un calco in gesso. L’artista che realizzò l’ opera Antonio Maria Morera ( Casale Monferrato 1885 – Genova 1964 ) usò come modello l’atleta genovese Nicolò Tronci, campione italiano di ginnastica che partecipò alle olimpiadi di Berlino del 1936. Lo scultore realizzò quest’opera pensando ad una figura possente dai muscoli guizzanti, che doveva esser completamente nuda ma, data la censura dell’epoca, alla fine gli furono coperte le pudende con un succinto perizoma. Originariamente sul basamento era una scritta che recitava così: ” Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro” ,la scritta venne scalpellata alla caduta del regime fascista, mentre invece l’altra scritta sull’ arco, che é dello storico Plutarco, venne lasciata, la scritta latina dice: “Vivere non necesse, navigare necesse est” , Plutarco la attribuisce al triunviro Pompeo che volle affrontare il mare tempestoso con le sue navi per portare il grano d’ Egitto a Roma e poter così sfamare la popolazione. Gabriele d’Annunzio disse a proposito del “Navigatore” che rappresentava l’uomo ligure rude e tenace che con un pesante remo in mano, scruta l’orizzonte alla ricerca di pericoli e nemici pronto a difendere i suoi concittadini da chi avesse osato muovere guerra contro di loro.

Il Fantasma dell’Opera di Genova

A Genova, dove oggi é Piazza De Ferrari, centro ideale della città ed il Teatro dell’opera Carlo Felice, anticamente era ubicata la chiesa ed il monastero di San Domenico. La chiesa fu eretta alla fine del XIV ° secolo dove esisteva un tempio sotterraneo dedicato al dio Mitra e dal 1540 fu sede del famigerato Tribunale della Santa Inquisizione, detto ciò quale antefatto alla nostra storia, in vico del Filo visse ed ebbe una bottega un mastro liutaio che di nome faceva Battista Carbone, il Carbone aveva una figlia di nome Leyla, che oltre ad essere bellissima, suonava il liuto e cantava con una voce dolcissima, così bella da far innamorare il giovane Camillo Negrone, figlio d’una delle più facoltose famiglie patrizie di Genova. Quando l’amore tra i due giovani fu di pubblico dominio, i Negrone si infuriarono all’idea che il loro figlio impalmasse la figlia d’un semplice artigiano ed anche perché loro avevano già promesso il ragazzo ad Isabella figlia della ricca famiglia dei Dureto. La madre di Isabella, venuta a conoscenza che Camillo di sposare sua figlia non ne voleva più sapere, pagò una delinquente di nome Garbarino perché denunciasse Leyla d’aver rubato ostie consacrate dalla chiesa di Santa Maria delle Vigne per poter fare sortilegi e fatture, in pratica l’accusò di stregoneria, dopodiché gli armigeri si presentarono alla casa del Liutaio, presero Leyla e la trascinarono davanti ai giudici del tribunale dell’ Inquisizione i quali le intimarono di confessare spontaneamente le sue colpe e dato che la povera ragazza, che al tempo aveva solo 16 anni, piangendo si dichiarò innocente, la fecero rinchiudere nelle segrete del monastero dove esisteva una stanza detta ” examinatorio ” nella quale con beneplacito papale si poteva esercitare la tortura sino alla piena “spontanea ” confessione del reo, in questo caso della rea, ma Leyla non resse a tante emozioni e cattiverie ed il suo giovane cuore si spezzò. Appena ne fu accertato il decesso, la ragazza fu sepolta in una cripta del Monastero in fretta e furia e di lei non si seppe più nulla. Passarono gli anni, la Serenissima Repubblica cadde con l’arrivo di Bonaparte, poi ci fu l’annessione al regno del Piemonte e Sardegna, il monastero e la chiesa di San Domenico andarono in rovina e furono demoliti definitivamente per volontà del re Carlo Felice, al suo posto venne costruito un monumentale teatro dell’Opera e qui nel 1828 ci fu la prima apparizione, durante una rappresentazione fu vista nel foyer del teatro una bellissima giovane dai capelli lunghi e sciolti, vestita con un abito di velluto scuro che le arrivava sino ai piedi, al suo passaggio restò nell’aria un tenue profumo di rose, il suo viso aveva un’espressione dolce ma triste e come comparve misteriosamente così scomparve. Successivamente molti la videro in altre occasioni ed alcuni affermano che in mano talvolta stringe un liuto sul suo cuore.

L’immagine rappresenta la chiesa ed il monastero di San Domenico in un’incisione di G.B. Probst del 1730