Castelletto un oasi di tranquillità

.”..Quando mi sarò deciso d’andarci in Paradiso. ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo…” così scriveva il poeta Giorgio Caproni nella sua poesia “L’Ascensore”. Il quartiere di Castelletto sorge su una collina che domina il porto di Genova, rinomato per la sua “Spianata ” una grande terrazza che offre un favoloso panorama del porto e del centro storico, un’oasi di tranquillità e di pace lontano e pur così vicino al traffico cittadino. Sulla Spianata o lì vicino, ci sono gelaterie e bar dove godersi il fresco nei mesi estivi sempre affollati da genovesi e turisti, ma il turista curioso si chiederà senza dubbio dov’ é il Castelletto? bene la risposta é che il Castelletto non c’é, o meglio c’era una volta, più che un castelletto fu una fortezza di cui si hanno notizie sin dal X secolo, fu costruita in loco perché dall’alto poteva controllare la città ed il porto, lo scopo originale era costruire un baluardo contro i nemici, ma in seguito servì soprattutto a sedare le rivolte del popolo genovese. Durante la dominazione francese fu ampliato e divenne sede del governatorato, quando nel 1528 i genovesi scacciarono i francesi riconquistando la loro libertà, la prima cosa che fecero fu di demolire la fortezza simbolo degli oppressori stranieri. Trecento anni dopo, quando Genova fu annessa al regno di Piemonte e Sardegna, il governo sabaudo, per prevenire sommosse e rivolte da parte della popolazione, la ricostruì ma nuovamente fu rasa al suolo dai genovesi durante l’insurrezione del 1849. Là dove si trovava la fortezza, a metà dell’800, vennero edificate case per la ricca borghesia genovese.

Dipinto del pittore Domenico Cambiaso ( Genova 1811 – 1894 ) ” Il Castelletto ” nel 1848, un anno prima che venisse distrutto dai genovesi in rivolta. Opera conservata nel Museo del Risorgimento già Casa di Giuseppe Mazzini in Via Lomellini di Genova

Il Presepe di scuola genovese

Le origini del presepe genovese sono difficili da datarsi, un po’ perché delle parti effimere c’é rimasto poco e niente, e un po’ perché per molto tempo non fu considerato opera d’arte in senso stretto, ma un’opera destinata alla devozione popolare e come tale non meritoria di particolari attenzioni, pensate che persino il grandissimo scultore su legno Maragliano realizzatore di grandi casse processionali, veri e propri capolavori, ebbe difficoltà a farsi riconoscere come artista, stante che le ” Corporazioni Genovesi ” lo volevano iscrivere tra i “Bancalari ” cioè i fabbricanti di mobili. Detto ciò, possiamo affermare che dalla fine del XVII secolo e soprattutto nel ‘700 gli artisti genovesi ebbero grande successo, quasi alla pari dei Napoletani, quali artefici di magnifici presepi composti da statuine realizzate come manichini articolati in legno intagliato e scolpito in policromia per le parti a vista e vestiti con abiti d’epoca settecentesca. Nella chiesa di Santa Maria di Castello di Genova, che per molto tempo fu la cattedrale estiva della città, fu attiva una Compagnia del Santo Presepio, il primo presepio documentato nacque lì, dopo di ché tutte le chiese e gli oratori genovesi fecero a gara per realizzare presepi sempre più belli e sontuosi. A Genova, forse il più famoso e quello del santuario della Madonnetta, ma bellissimo é anche quello delle suore Giuseppine, oltre che quello del museo Luxoro di Nervi. Una precisazione devo farla, anche perché recentemente ho letto che le più belle statuine presepiali sono spesso attribuite allo scultore Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739 ), già lo dissi in altri miei scritti e lo ribadisco in questo mio post: non esiste nessuna prova che questo grande scultore si sia mai dedicato a realizzare statuine da presepe, non è da escludere che qualche collaboratore della sua bottega lo abbia fatto, ma non ci é pervenuto nessuno scritto in proposito, mentre invece nel ‘700 fu Pasquale Navone ( Genova 1746 – 1791 ) che impropriamente fu definito allievo del Maragliano, cosa impossibile perché nato 5 anni dopo la morte del grande artista, a realizzare statuine anche di grandi proporzioni d’una bellezza straordinaria.

Nella Foto il presepe allestito al pian terreno del museo di Palazzo Rosso di via Garibaldi a Genova con statuine del ‘700 ed alle spalle una scenografia ispirata ai palazzi di via Garibaldi già via Nuova illustrati in un libro da Rubens.

Gio. Andrea De Ferrari un Velasquez genovese

Il grande storico dell’arte Roberto Longhi nell’ormai lontano 1916 scrisse: ” … Valse insomma il Gentileschi ( Orazio Gentileschi 1563 – 1639 ) sempre attraverso il Fiasella ( Domenico Fiasella 1589-1669 ), a rafforzare questa corrente di pura visione che culmina nel sovrano esecutore di vita , nell’ignaro Velasco ( Velasquez) di Genova che risponde al nome di Giovanni Andrea De Ferrari”. Il Nostro, secondo il Soprani celeberrimo biografo degli artisti di Liguria, nacque a Genova da una famiglia agiata che lo instradò alle scuole. La sua formazione artistica iniziò nella bottega di Bernardo Castello e poi in quella, molto più aperta al “nuovo “, di Bernardo Strozzi, qui Gio. Andrea affinò il suo gusto per il colore che divenne per lui lo strumento per la ricerca del “vero” . A partire dal luglio del 1634 risulta essere iscritto nell’ Accademia di San Luca a Roma dove, a quel tempo, tutti gli artisti venivano registrati pagando un tributo alla Chiesa; a partire dagli anni 40 del ‘600, oltreché dalla scuola del “Sarzana”, saranno i fiamminghi e soprattutto Van Dick ad influenzare la sua poetica, che diverrà più originale contraddistinta da un tocco delicato e un’abbandono graduale allo stile narrativo tipico del Fiasella, per una ricerca d’una maggiore intensità espressiva ed emozionale. Amante dell’eleganza , colto e brillante in gioventù, terminò la sua vita infelice poiché si ammalò di chiragra una malattia che lo colpì nelle articolazioni delle dita delle mani impedendogli di dipingere.

Nella foto: un dipinto raffigurante l’adorazione dei pastori, in primo piano uno dei più stupendi brani di natura morta prodotti dal ‘600 non solo italiano …. ” fiori frutti e animali, figure picciole e grandi, e componimenti di qualsivoglia historia, portata alla maggiore eccellenza dell’arte” ( Soprani 1674 ).

Il dipinto già nella Cappella del Rosario della chiesa di San Domenico, oggi fa parte delle collezioni dell’ Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova.

UN CASTELLO PER TUTTE LE STAGIONI

Il quartiere genovese di Certosa é uno dei più popolari della Valpolcevera, il toponimo deriva dal fatto che qui nel medioevo e più precisamente nel 1297, fu fondata una “Certosa ” ancora oggi esistente con i suoi magnifici risseu, che sono pavimentazioni tipiche composte da acciottolati di pietre solitamente bianche e nere contrapposte in modo da formare disegni a mo’ di mosaico. In questo quartiere periferico sorge il castello Foltzer. Questa costruzione in stile neogotico fu progettata sin dal 1784 ma la sua edificazione risale dal 1858 al 1860 su commissione del sindaco di Rivarolo Cavaleri, che avrebbe voluto usarla come sua dimora, ma che di fatto mai la abitò; attorno all’edificio esisteva un grande parco che si estendeva sino alle rive del torrente Polcevera. La proprietà del castello passo di mano in mano, mantenendo però sempre il nome di “Casino Cavaleri “, per diversi anni venne adattato alle esigenze di chi lo possedette, fu così che da civile abitazione fu trasformato in casa da gioco, poi orfanotrofio, sino a diventare la residenza dell’industriale oleario Ernesto Foltzer che vi visse alla fine degli anni ’80 del XIX secolo usando il giardino come deposito e stoccaggio dei fusti e barili d’olio, poi l’edificio fu abbandonato e, dopo l’ascesa di Mussolini al potere, trasformato in ” Casa del Fascio “, Alla fine della seconda guerra mondiale diventò la sede del Partito Comunista di Rivarolo, dopodiché subentrò il progressivo abbandono ed il declino che lo trasformarono sino agli anni ’90 del secolo scorso in una sinopia di quello che era stato un castello. Finalmente nel 1997 il comune di Genova, avendone acquisito la proprietà, lo restaurò, l’edificio divenne la sede della biblioteca “Cervetto” un’oasi di tranquillità immersa nel traffico cittadino dove poter leggere e studiare, nel giardino ora é un centro sportivo ed un parco giochi per i bambini.

Paolo Gerolamo Piola pittore de Zena

Di Paolo Gerolamo Piola ( Genova 1666-1724 ) celeberrimo al suo tempo e, alla morte del padre Domenico nel 1703, capo della sua bottega che sin dalla seconda metà del XVII secolo fu considerata la più prestigiosa di Genova, i cambiamenti del gusto e dello stile fecero si che, nell’ottocento, quasi nessuno si ricordasse di lui, anche perché i prestigiosi committenti che pagarono i lavori a fresco o a cavalletto ai Piola, li catalogarono come lavori di ” Casa Piola ” di cui Domenico Piola era il capo indiscusso, così Paolo Gerolamo, il più dotato dei suoi figli pittori, pur essendo molte volte stato co-protagonista nella invenzione, nel disegno e nella realizzazione di grandi opere a fresco, non venne mai citato come autore, ma i lavori , grandi o piccoli che fossero, sempre come ” Casa Piola ” vennero catalogati negli inventari. Solo nel secolo scorso, storici dell’arte di chiara fama, lo riscattarono dall’oblio, eppure anche suo padre Domenico s’era accorto che suo figlio era un fuoriclasse, infatti lo volle con lui nei numerosi viaggi fatti nel nord Italia e poi a Roma, dove, grazie al nobile Pallavicini. approfondì gli studi sull’arte pittorica nell’atelier del grande pittore Carlo Maratta, artista che lo apprezzò grandemente e al quale rimase unito non solo dalla gratitudine per il “maestro ” ma anche da una sincera amicizia. Il suo stile tardo barocco é ben descritto dal Soprani nel suo” Vita de Pittori, scultori ed architetti genovesi” edito nel 1768, “…..il Nostro é riconoscibile per il suo disegno, é scelto, risoluto e franco, amante delle forme quadrate, tanto né nudi che nelle pieghe, il tutto eseguì con somma grazia e venustà (*), la nobiltà delle idee, la vivezza dé colori eran le cose in cui poneva la principale cura, fu imitatore della maniera del Maratti ( Maratta ) ma non già schiavo….. ” con ciò facendo intendere che pur seguendo lo stile marattiano lo reinterpretò con la sua personale sensibilità artistica.

(*) venustà significa bellezza, soprattutto femminile, in cui grazia ed armonia ispirano una perfezione ideale.

Nella foto un affresco visibile a Genova nella chiesa della Nostra Signora della Consolazione, cappella della Torre, rappresentante Gesù che dà le chiavi del Paradiso a san Pietro, opera matura del Maestro.

San Giobatta patrono di Genova

Genova ebbe nel suo passato remoto come unico protettore San Giorgio, il culto di san Giorgio fu portato nella nostra città dalle truppe dell’imperatore di Bisanzio , un santo leggendario , così leggendario che la Chiesa ufficiale lo ha declassato a santo di serie B. Nella nostra città fu affiancato a san Giovanni Battista quando, finita la prima crociata capitanata da Goffredo di Buglione, i genovesi , come del resto anche gli altri crociati, si misero a cercare importanti reliquie da portare nella loro patria, una vera e propria caccia al tesoro, così, nella città di Myra in Asia Minore nell’ anno del signore 1098 i crociati genovesi penetrarono in una chiesa convinti di trovare i resti di san Nicola, restarono delusi quando presero atto che lì erano già passati i baresi e se li erano portati via, amareggiati ed anche un po’ incavolati, stavano per andarsene come si dice con ” le pive nel sacco “, quando ad uno di essi venne l’ ispirazione di continuare a scavare sotto il sacello che custodiva i resti di san Nicola, sotto gli occhi dei religiosi che sbiancarono in viso e con voce tremante li pregarono di non farlo perché se avessero perseverato nello scavare avrebbero commesso un atto sacrilego. Il capo della spedizione, forse lo stesso Guglielmo Embriaco detto ” Testa di Maglio ” ( che, per esser chiamato così doveva essere un bel tipetto), sfoderò la spada ed ordinò ai soldati di continuare a scavare, a questo punto, seppur riluttanti i religiosi gli dissero che lì, da centinaia di anni, erano custodite le ceneri del ” Precursore ” . I Genovesi invece d’essere intimoriti da questa rivelazione, si misero a scavare con maggior foga, sinché non trovarono un’urna contenente le ceneri di Giovanni Battista. I preti li supplicarono di non portarle via, perché a loro erano state affidate e loro le avevano custodite per secoli, ma i crociati genovesi minacciandoli con le loro spade uscirono trionfanti da questo tempio e ripartirono con le loro galee verso Genova, Quando la flotta genovese raggiunse la spiaggia di Sancto Petro de Arena Guglielmo Embriaco consegnò la sacra urna ai maggiorenti della città e da quel momento san Giovanni Battista ( Giobatta ) diventò il protettore più importante di Genova surclassato solo dalla Vergine Maria proclamata regina di Genova nel 1637. (*)

(*) anche san Lorenzo e san Bernardo sono stati eletti santi protettori, al primo é stata dedicata anche la cattedrale.

L’edicola sacra mostrata nella foto, dedicata a San Giovanni Battista, si può ammirare in piazza Soziglia nel centro storico di Genova

Impulso di scrittura giornaliero
Quali sono i vantaggi di avere un animale domestico?

La Tomba dei Gatti

Visitando il Cimitero Monumentale di Staglieno (Genova), nel porticato superiore del settore D ci troviamo di fronte alla tomba della famiglia Gatti realizzata nel1875 dallo scultore genovese Giuseppe Benetti ( 1825- 1914 ).Il Nostro ebbe come maestro Santo Varni alla “Ligustica ” di Genova, nel 1852 completò la sua formazione artistica a Firenze dopodiché ritornò nella sua città natale. Dagli anni ’70 del XIX secolo il suo stile rigidamente accademico, si evolse pian piano verso una maniera più attenta alla resa psicologica dei personaggi rappresentati nelle sue sculture ed anche ad un realismo che potesse far presa sulle emozioni del riguardante. La ricca classe borghese di Genova gli commissionò diverse tombe monumentali, tra le quali quella rappresentata della famiglia Gatti. Sullo sfondo dì un impianto classicheggiante avente una porta al centro della scena che rappresenta il passaggio tra la vita terrena e quella del Cielo, il Nostro introduce naturalezza e realismo alla sua opera raffigurando due figure femminili , una, la vedova sofferente seduta su i gradini di pietra scalza e vestita con abiti moderni e l’altra donna in piedi personificazione del dolore, a lato un bambino piangente, ed in alto un bassorilievo con l’episodio evangelico della vedova di Naim. In questo gruppo scultoreo il Benetti ci mostra come il suo stile classico, come detto, andasse verso uno stile emozionale ed ad un immaginario simbolico alle volte anche religioso.

A creuza do Diao

A Genova, In pieno centro città, tra la miseranda piazza Piccapietra, che prende vita soltanto nel periodo natalizio con il ” Mercatino di San Nicola” e la Galleria Mazzini, una volta considerata il foyer del teatro dell’opera intitolato a Carlo Felice ed a quei tempi piena di vita ed ora triste, per usare un eufemismo, si trova uno stretto caruggio ( vicolo ) enfaticamente chiamato via dei Cebà, nobili genovesi noti sin dal XII secolo, che vedendo la via che li ricorda, si rivoltano sicuramente nei loro sacelli. Questa viuzza asfaltata può essere d’interesse solo per constatare l’enorme scavo che fu fatto alla fine del XIX secolo per la creazione della Galleria Mazzini e della via Roma, evidenziato, guardando verso il cielo, dal portone del civico n.3 che un tempo era all’altezza della strada e adesso si trova sospeso in alto, con sotto un cantiere di non so che cosa posto sopra un terrapieno che restringe ulteriormente la via, abbellita anche da una lunga fila di cassonetti per la spazzatura che, peraltro, viene con disinvoltura depositata anche fuori dai contenitori, una vera esposizione di bancali, scatoloni di ogni tipo e fattura, appendiabiti e quant’altro, una vero e proprio museo della ” rumenta ” ( in lingua genovese spazzatura ). Per completare lo scempio, la strada finisce con un moderno orinatoio a gettone da tempo non funzionante. I perché di tutto questo nessuno lo sa, può darsi che questo pezzetto di Genova sia stato maledetto, infatti nei tempi antichi era chiamato a Creuza do Diao ( salita del diavolo ), evidentemente perché non era molto ben frequentato. Nella prima metà del ‘900 invece fu frequentato anche troppo, perché qui era la più lussuosa casa di tolleranza di Genova, la mitica ” Suprema “, questo bordello fu noto non solo per la pulizia, l’arredamento di gran gusto e per la bellezza delle ragazze che offrivano i loro servizi avvolte in serici veli, ma anche perché frequentato dalla crema dell’aristocrazia cittadina. Quando la legge della senatrice Lina Merlin fu approvata nel 1958, su tutto il territorio nazionale furono chiuse le case di tolleranza, ed anche la “Suprema” dovette chiudere con gran dispetto dei suoi affezionati clienti.

Cundigiun o Condiglione una pietanza ligure

Il cundigiun, in italiano condiglione, é un piatto freddo perfetto per la stagione estiva, per prepararlo bastano gli ortaggi di stagione e le gallette, famose quelle di Camogli, che per secoli hanno sfamato la gente che andava per mare; é veramente singolare che un popolo che nel mare e dal mare ha avuto nel passato potenza e gloria, molte volte abbia scelto come nutrimento prodotti che vengono dalla terra. Gli ingredienti, come detto, sono gli ortaggi di stagione a cui si può aggiungere uova sode, tonno o acciughe dissalate, capperi ed olive taggiasche, il tutto condito con olio d’oliva e sale quanto basta e buon appetito.

Genova in una canzone

…. Ti vedrò affondare in un mare nero/proprio dove va a finire l’occidente/

Ti vedrò rinascere incolore/ ma chiederai ancora amore

senza sapere quel che dai/perché é la vita intera che grida dentro/

o forse il fumo di Caricamento…..

da ” Notti di Genova ” di D. Malaspina , C. De André, G. Vanni

L’Acquasola ed il suo salice piangente

A Genova, negli anni 50 del secolo scorso, nel parco dell’ Acquasola esisteva una pista per andare in bicicletta, io imparai ad andare in bici proprio lì, quando ero stanco di pedalare, mia mamma mi accompagnava a guardare i cigni del laghetto che pigramente nuotavano con i loro piccoli e, quando erano stufi degli strilli dei bambini, si rifugiavano sotto le fronde d’un salice piangente posto su un isolotto in mezzo all’acqua. Da molto tempo i cigni non sono più, e pure il salice é passato a miglior vita. Oggi, percorrendo a piedi corso Andrea Podestà, senza una precisa ragione, sono entrato nel parco e sono rimasto basito quando ho visto che sull’isolotto del laghetto c’é di nuovo un salice piangente che, con le sue fronde accarezzate dalla brezza, sfiora lo specchio d’acqua come una volta. Francamente credevo d’essere l’unico ad avere nostalgia di quell’albero, ma evidentemente non é così, o forse é stata la ninfa “Sola”, una delle driadi che gli antichi romani pensavano vivessero nei boschi proteggendoli, e che, secondo alcuni, diede il nome a questo luogo, il cui toponimo deriverebbe proprio da Acqua, perché anticamente vi scorreva un corso d’acqua che poi si congiungeva al Rio Torbido ( oggi completamente interrato ) e alla ninfa “Sola”.

Le Catene di Porto Pisano

Nel centro storico di Genova, in piazza Sarzano che nel medioevo fu teatro di giostre di cavalieri, é l’ingresso del Museo della Scultura Ligure e non solo…. Attualmente é visitabile solo in parte, perché si sono resi necessari lavori di straordinaria manutenzione non più procrastinabili. Nell’antica chiesa sconsacrata di sant’ Agostino, facente parte del museo, é visibile questo rilievo preso da una casa demolita di Vico dritto Ponticello angolo via dei lanaioli, é un rilievo commemorativo della presa di Porto Pisano da parte dei genovesi, realizzato in marmo bianco apuano recante la data del 1290. Nel rilievo sono facilmente identificabili le poderose catene che chiudevano il porto impedendone l’accesso ai vascelli nemici. Ritorniamo un momento indietro nel tempo, Pisa e Genova non perdevano un’occasione per darsele di santa ragione, sino ad arrivare alla battaglia della Meloria nel 1284 quando la flotta genovese sconfisse quella pisana. Interessante a tal proposito lo scritto di Mariano Bargellini del 1869 che recita testualmente: ….I Genovesi, poiché si videro contro lor voglia trascinati ad una lotta mortale, messo da parte ogni pensiero di conciliazione, attesero a prendere tutti quei provvedimenti che credettero migliori ad ottenere un successo completo……Nella città era immenso il desiderio di fiaccare l’audacia dei pisani: fu proibito ai reduci di sbarcare, poste in ordine le galere che si trovavano nel porto disarmate, le ciurme, nonché mancassero, soverchiavano, poiché la popolazione di fuori e di dentro (le mura ) entusiasmata si affollava per imbarcarsi. Avanti che lo stesso giorno terminasse , ottantotto galere .parte della città, parte delle riviere, ed otto panfili, navi leggere usate per messaggi, erano pronte a far vela sotto il comando di Oberto Doria, capitano del popolo…. Sappiamo come andò a finire, La flotta pisana fu in gran parte distrutta e pochi riuscirono a fuggire, anche il loro comandante Alberto Morosini fu ferito da un balestriere e catturato, tuttavia le galere genovesi, stracariche di prigionieri e di bottino, fecero vela verso Genova e solo dopo qualche anno attaccarono Porto Pisano riuscendo, con uno strattagemma, a spezzare la grande catena che impediva l’accesso al porto che fu interrato e da quel momento il declino di Pisa fu segnato. Le Catene furono prese dai genovesi ed appese come trionfi alle porte della città, solo nel 1860 furono restituite a Pisa come segno di fratellanza per la nascita del nuovo Regno d’Italia, in fondo dopo 570 anni ci si poteva mettere una pietra sopra alle inimicizie del passato.

Quattro Lampadari per un ricordo struggente

A Genova la Galleria Mazzini nel secolo scorso fu ritrovo di intellettuali, poeti ed artisti d’ogni genere, era anche considerata come il foyer del teatro Carlo Felice con i suoi ritrovi, i bar ed i suoi ristoranti, da bambino c’ero di casa, perché il mio padrino aveva aperto negli anni ’50 un negozio di abbigliamento; ” Paganello” moda maschile, che in breve tempo ebbe un successo straordinario, oggi non se lo ricorderà più nessuno perché : ” così breve é la vita e così lungo l’oblio “. La Galleria era, insieme alla via Roma, considerata il salotto buono di Genova , ma poi arrivo il degrado, la copertura a vetri s’era ammalorata, i grandi lampadari , fusi a Berlino alla fine del XIX secolo , smontati e messi in un deposito anch’essi danneggiati dal tempo e dagli agenti atmosferici. Finalmente, dopo 20 lunghi anni, tutto sembra tornare al suo posto, ne sono felice, anche perché per costruire la Galleria tra il 1866 ed il 1877 furono distrutti il convento di San Sebastiano, il conservatorio di san Giuseppe ed il mitico oratorio di San Giacomo delle Fucine, cancellando per sempre una parte significativa della Genova medioevale.

Paganello moda maschile

La Piazza Cinque Lampadi

Da ragazzo andare in piazza Cinque Lampadi era d’obbligo, lì sotto le volte romaniche dell’antico palazzo della famiglia Cicala, c’era il negozio di “Gaggero ” strumenti musicali, e come tanti ragazzi della mia generazione anche io avevo un ” complesso ” , allora si chiamavano così le band musicali; andavamo a guardare ed a provare, nel mio caso, le chitarre, sbavando per le Fender Stratocaster in vendita, sapendo benissimo che, con le nostre paghette settimanali, non ce le saremmo mai potute comprare. Tornando a parlare della nostra mitica piazzetta, chi fosse interessato a vederla può, partendo da piazza san Pietro in Banchi, imboccare il vicolo di Canneto il Curto (*) e se la trova sulla sinistra. La Piazza si chiama così perché vi é un’edicola Mariana alla quale probabilmente i fedeli accendevano cinque lampade devozionali, esistono anche altre ipotesi sul toponimo da cui deriva il nome della piazza, ma questa mi sembra la più credibile, comunque, per gli amanti dello stile barocco, c’é un altra edicola nei pressi, là dove inizia via dei Conservatori del Mare, raffigura la Madonna della Guardia con il beato Pareto, realizzata in marmo bianco statuario, ha nella parte inferiore cinque lampade. Concludendo, ogni angolo della ” Città Vecchia ” ti regala un ricordo struggente e un piccolo capolavoro di storia e di bellezza.

(*) il vicolo di Canneto il Curto si chiama così perché anticamente lì scorreva un ruscello che aveva le sponde irte di canneti.

Preciso che l’edicola sacra mostrata nella foto si trova all’angolo tra via Conservatori del Mare e Via San Pietro della Porta, dove anticamente era la porta della città nel X secolo, prima della costruzione delle mura dette del Barbarossa.

UN PARAFULMINE PER LA BASILICA DEI SAULI

A Genova. la potentissima famiglia dei Sauli, che ebbe case e poderi sul colle di Carignano, secondo la tradizione, la domenica assisteva alla celebrazione della messa nella chiesa gentilizia di Santa Maria in via Lata appartenente alla famiglia Fieschi. Un giorno sembra che i Sauli abbiano chiesto ai padroni di casa di ritardare la messa perché erano in ritardo ed i Fieschi risposero seccamente che chi amava le comodità doveva procurarsele con le proprie “palanche ” (*), Quest’affronto pare sia stato la ragione che indusse i Sauli a farsi costruire una basilica così ricca e grande da far schiattare di rabbia quei maleducati dei Fieschi, peraltro, questi ultimi, schiattarono non di rabbia ma di vita, quando ordirono una congiura contro Andrea Doria e la sua famiglia, la congiura fallì, i Fieschi vennero uccisi o nella migliore delle ipotesi, esiliati. Tornando alla nostra basilica dedicata alla Madonna Assunta in Cielo, il primo che pensò a mettere mano al portafoglio per la costruzione di questo tempio fu Baudinelli Sauli con un lascito testamentario datato 1481, dopo molti anni fu incaricato del progetto il grande architetto perugino Galeazzo Alessi ed i lavori iniziarono nel 1552, poi si interruppero e ripresero a singhiozzo terminando esteriormente solo nel 1890 , questo fatto indusse il popolino a dire, per un evento che si protrae all’infinito: ” Sembra la fabbrica di Carignano “. I costi per la costruzione e per le opere d’arte contenute pare abbiano raggiunto la cifra allora astronomica di 100.000 scudi d’oro, proprio per questo, quando Benjamin Franklin (1706 – 1790 ) celeberrimo uomo politico americano, scrittore, diplomatico e scienziato , nel 1752 inventò il “parafulmine ” a Genova si decise nel 1783 di installare i primi due ” preservativi ” ( così venivano chiamati i parafulmini ) uno sulla sommità della Lanterna ( il famoso faro di Genova ) e l’altro a protezione della basilica di Carignano.

(*) palanche in lingua genovese significa denaro

nella foto visione aerea della basilica di Santa Signora Assunta in Carigano.

SOZIGLIA ED I MACELLI CHE NON SONO PIU’

Nel centro storico di Genova e più precisamente nel sestiere della Maddalena, c’é piazza Soziglia e la via dei macelli di Soziglia che, per la verità, più che una via é uno stretto “caruggio ” (*) sotto del quale scorrono le acque del torrente sant’Anna insieme a quelle delle Fontane Marose. Il toponimo deriverebbe dalla parola latina ” sus” che significa suino e da ” eia ” che in epoca medioevale indicava un quartiere, perché, sin da tempi remoti, la zona era adibita ai macelli ed al commercio delle carni, soprattutto di maiali. La Corporazione dei” Beccai ” , così venivano chiamati i macellai, era una corporazione importante tra quelle genovesi e nella via vi erano molte botteghe che commerciavano le carni, tra queste ci fu anche quella di mio padre che era collocata a metà della via in una piazzetta dove subito dopo c’é un’ edicola votiva settecentesca posta quasi all’altezza dei passanti, che rappresenta la Madonna della città voluta dall’Ars Laniorum ( corporazione dei Macellai ) come recita l’epigrafe posta in basso. Sin dopo la fine della seconda guerra mondiale vi furono qui numerose macellerie, oggi non più, tra quelle che sono rimaste, una delle più interessanti é senz’altro quella denominata “NICO” attiva sin dalla fine del ‘700, ha un bellissimo banco in marmo bianco di Carrara scolpito a motivi che rimandano all’arte dei Beccai ed anche al Risorgimento stante che sono presenti, scolpite a tutto tondo, le teste di Mazzini, Garibaldi, Nino Bixio ed una che rappresenta l’ Italia vista come una donna coronata.

( *) il caruggio é sinonimo d’un vicolo stretto tra alte palazzate

A Genova Il Falstaff può anche esser mangiato

Nell’ormai lontano 1828 quattro fratelli svizzeri di Pontresina di nome Klainguti giunsero a Genova per imbarcarsi e trovar fortuna nel nuovo mondo, per contrattempi d’ogni genere, dovettero rimandare il viaggio e dato che erano pasticceri di professione, pensarono di aprire temporaneamente una bottega nello slargo di Piazza Soziglia, essendo molto bravi nel loro mestiere, gli affari cominciarono a girare per il verso giusto e allora decisero di fermarsi definitivamente a Genova, così nacque la mitica pasticceria Klainguti del centro storico .Oggi il bar pasticceria appartiene alla famiglia Ubaldi che lo ha fatto restaurare mantenendo però lo stile e il gusto che il locale doveva avere all’inizio del XIX secolo quando era frequentato da intellettuali e personaggi famosi come Giuseppe Verdi per il quale i Klainguti avevan creato una brioche che in suo onore avevano chiamato ” Falstaff ” ed il grande compositore li ringraziò scrivendo loro un biglietto con scritto: ” Cari Klainguti grazie per i Falstaff buonissimi molto migliori del mio “. (*)

( *) Falstaff é un’opera di Giuseppe Verdi scritta tra il 1890 ed il 1893 fu l’ultima che scrisse .

Genova Indimenticabile

Era una di quelle giornate che rendono Genova indimenticabile, il vento di tramontana aveva spazzato via le nuvole gravide pioggia che da tanti giorni avvolgevano come un sudario la città, insieme a loro, la “macaia ” (*) portata dal vento di scirocco, che aveva fatto salire l’indice d’umidità a livelli insopportabili. Il cielo, colorato da un azzurro intenso, faceva apparire le montagne alle spalle di Genova come una quinta teatrale e poi arrivò la sera…fu allora che Genova si rivolse al Sole dicendogli: ” Per favore non andartene via, resta ancora un po’ “, il Sole le sorrise e rispose: ” mi chiedi l’impossibile cara, però ti lascio un ricordo della mia luce riflesso sui vetri dei grattacieli di Corte Lambruschini , ciao e a domani”.

(*) Macaia : é una parola della lingua ligure di probabile origine araba, indica una situazione metereologica generata dal vento caldo proveniente da sud-est che fa aumentare il tasso di umidità.

nella foto, panorama della città visto dalle mura di Santa Chiara

Una “scacchiera” in Cattedrale

La Cattedrale di san Lorenzo a Genova fu consacrata nel 1118 da papa Gelasio II ma, per a verità, del tempio esisteva solo un altare circondato da un’area destinata alla preghiera. La sua costruzione venne portata avanti nel corso del XII secolo ma, come accadde per molte cattedrali, i lavori si protrassero per molto tempo, tanto da cambiare lo stile della costruzione da “romanico ” a “gotico “. Artefici di quest’opera furono i ” Magistri Antelami ” un gruppo di maestranze lombarde attive non solo a Genova ma anche in Italia ed in Europa tra il XII ed il XVI secolo. Gli Antelami derivarono il loro nome da ” Antelamus ” un toponimo che indicava una valle posta tra il lago di Como e quello di Lugano oggi chiamata Val d’ Intelvi. Ora dovete sapere che questi abili architetti, carpentieri e lavoratori della pietra, avevano l’abitudine di riciclare quello che restava degli antichi monumenti romani inserendoli nelle nuove costruzioni, così è facile ritrovare nelle nostre chiese colonne e capitelli di reimpiego provenienti da templi pagani e, parlando della nostra cattedrale, marmi provenienti da urne sepolcrali d’epoca romana probabilmente presi da un antico cimitero che era posto dove fu eretto questo tempio, però quello che si scorge guardando la parete del lato sinistro d’una delle due torri, quella rimasta incompiuta per intenderci, lascia interdetti, sotto una grande finestratura si scorge chiaramente una ” scacchiera ” incassata nella parete. C’é una leggenda che ci é stata tramandata nella quale si narra che il mercante Megollo Lercari sfidò a scacchi un cortigiano di Trebisonda di nome Andronico, vinse la partita e Andronico infuriato dello scacco matto ricevuto, insultò il Lercari il quale si alzò e gli rifilò un calcio nel sedere, dopo di che, per imperitura memoria del fatto, nel 1314 fece murare la sua scacchiera sulle pareti della cattedrale.

LA STORIA IN UNA BOTTIGLIA

E’ cosa risaputa che anche nella Genova medioevale ci furono fornaci che produssero ceramiche ubicate nell’area di Ponticello e della Porta di Sant’Andrea, sulla fine del ‘400 in città ci fu un’importante richiesta di “laggioni ” (*) per la decorazione dei pavimenti , delle sale, delle scale e degli androni dei palazzi che ancora oggi si possono ammirare non solo nel museo di Sant’Agostino ma in alcuni palazzi del centro storico cittadino, tuttavia, dopo le sciagure che colpirono la città di Savona a partire dal ‘500 e proseguirono sino al sesto decennio del XVII secolo, dalla seconda metà del ‘600, Savona ed Albissola raggiunsero con le loro maioliche (**) un altissimo grado di perfezione monopolizzando in Liguria la produzione di questi manufatti, che furono apprezzati anche fuori dai territori della Serenissima Repubblica di Genova. I “figuli” ( così erano chiamati i lavoratori della ceramica ) furono famosi anche per la produzione delle maioliche da farmacia atte a contenere unguenti, pozioni e medicamenti d’ogni genere. Queste maioliche, solitamente realizzate con fondo bianco o berettino ( celeste ) venivano poi decorate in blu cobalto con motivi calligrafici naturalistici desunti dai manufatti che provenivano dall’Asia minore, da motivi religiosi come nella bottiglia illustrata d’epoca secentesca ed anche paesaggi o scene di genere. Queste maioliche, oltre che nel Museo della ceramica Ligure di Savona, si possono ammirare anche a Palazzo Tursi in via Garibaldi a Genova dove sono confluite tutte quelle che appartenevano all’antico ospedale di Pammatone, oggi non più esistente, che per cinque secoli fu il più importante ospedale di Genova. Nella bottiglia rappresentata era conservata l’acqua di Artemisia. un liquido che si estraeva dalle radici e dalle punte dei ramoscelli secchi di questa pianta, era considerato un rimedio per favorire la digestione, e come antispasmodico, diuretico, antidepressivo e febbrifugo; la medicina ufficiale oggi non riconosce alcuna validità dell’uso di questa pianta, peraltro, sarà stato per un effetto placebo, ma anticamente sembra che migliorasse lo stato dei malati a cui veniva somministrata e comunque, tra gli antichi rimedi proposti dai medici genovesi, ce ne furono alcuni che veramente ci lasciano basiti, per esempio le piaghe andavano lavate con aceto forte e poi medicate con un composto a base di sale comune e fuliggine di camino, o , per evitare le pestilenze che mietevano migliaia di vittime, si pensava fosse salvifico un massaggio alla regione cardiaca fatto con olio di scorpione.

(*) i Laggioni erano antiche piastrelle in ceramica smaltata che ripetevano motivi faentini e pesaresi, alcune a motivo rilevato ed altre che imitavano gli “azuleios ” spagnoli.

(**) i prodotti in ceramica ligure vennero chiamati “maioliche” perché originariamente questi manufatti vennero importati dall’ Asia minore ed il porto dove fiorì il loro commercio fu l’isola di Maiorca nelle Baleari.

Seppie in Zimin

La parola “Zimin” o Zimino ha la sua origine dalla parola araba ” samin ” che significa “grasso” , a Genova per “zimin ” s’intende una zuppa densa e corposa in cui vengono fatti cuocere diversi elementi principali con le bietole tagliate a listelli ( in lingua genovese le Giaee ). Le seppie in zimin sono una vera bontà, una specialità che unendo mare e terra, ci ricorda che nella nostra città, da sempre, sono privilegiate le pietanze che alla nostra vocazione marinara uniscono anche una radice contadina. Le seppie in zimin si servono con delle fette di pane abbrustolito condito con olio extra vergine d’olivo o con le tipiche gallette del marinaio di Camogli, ( anche a Zoagli ne rivendicano la paternità ) una sorta di sottile focaccina secca bucherellata che veniva usata dai marinai perché di facile conservazione a bordo dei vascelli.

Il “Museo” fonte d’ispirazione e di bellezza

Vi confesso che sin da bambino fui affascinato dalla “storia” e molto meno dalla matematica, della storia soprattutto amai, più che le date e gli accadimenti, i personaggi e le cose che, con l’immaginazione, mi consentirono di tornare indietro di secoli e tra le cose, le sculture, i mobili ed in particolare i dipinti. Avendo in vita mia visitato tantissimi musei e gallerie d’arte, mi permetto di darvi un consiglio che vi aiuti ad apprezzare di più le opere d’arte che vedrete esposte alla vostra fruizione, tanto non fate, come purtroppo molti fanno, di cercare di vedere tutto, il risultato sarà che, dopo l’ennesimo dipinto esaminato, non riuscirete a mettere a fuoco più niente, il livello d’attenzione scenderà e le ultime sale le percorrerete velocemente guardando distrattamente a destra e a sinistra per vedere dove è l’uscita, ecco, a mio avviso, questo sistema di visita é assolutamente da evitare, allora é meglio una bella gita in campagna o nei boschi, visto che pare sia un anno eccezionale per la raccolta dei funghi, invece, ritornando al nostro ” museo ” voi dovete sapere in primis cosa andare a vedere e in secundis, scegliere due o tre opere d’arte e quelle esaminarle con calma, cercando di capire i perché ed i per come l’artista abbia voluto dipingere il soggetto rappresentato. A Genova non ci possiamo lamentare, in città abbiamo splendidi musei e, tutti quanti, hanno dipinti che ci fanno ricordare chi fummo e quale importanza ebbe nel mondo la nostra Serenissima Repubblica. Per dimostrare quanto vi ho scritto, ho fotografato un dipinto della spettacolosa Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di piazza Pellicceria, incastonata come un raro gioiello nel centro storico della nostra città. Il dipinto rappresenta il marchese Anton Giulio II Brignole Sale ( 1673 -1710 ) e fu realizzato nel 1704 dal celeberrimo pittore ritrattista francese Hyacinte Rigaud ( Perpignan 1659- Parigi 1743 ) dipinto firmato e datato. Il marchese lo commissionò al Rigaud a Parigi dove i si trovò per negoziare con il re Luigi XIV la liberazione di alcuni ufficiali piemontesi. Il ritratto cerimoniale, pur essendo un genere lucrativo per eccellenza, non era considerato un gran che nella scala delle preferenze dei generi pittorici, una via di mezzo tra il “grande stile ” comprendente i dipinti storici e la scena di genere. Rigaud fu uno dei massimi interpreti francesi della ritrattistica cerimoniale, per i suoi dipinti si faceva pagare profumatamente, in questo ritratto la prima cosa che ci colpisce sono la ricchezza delle vesti, la resa psicologica del personaggio rappresentato è eccezionale, ispira sicurezza, calma e tranquillità, il suo sguardo volge a sinistra del riguardante, facendo ciò gli impedisce di sentirsi coinvolto nel suo mondo ma di essere soltanto un semplice spettatore.

GENOVA E’ POESIA

Vanno

Vengono

ogni tanto si fermano

e quando si fermano

sono nere come il corvo

sembra che ti guardano

con malocchio.

Certe volte sono bianche

e corrono

e prendono la forma dell’airone

o della pecora

o di qualche altra bestia

ma questo lo vedono meglio i bambini

che giocano a corrergli dietro

per tanti metri.

Certe volte ti avvisano con rumore

prima di arrivare

e la terra si trema

e gli animali si stanno zitti

certe volte ti avvisano con rumore.

Vanno

vengono

per una vera

mille sono finte

e si mettono lì tra noi e il cielo

per lasciarci soltanto

una voglia di pioggia.

( da “LE NUVOLE” testo e musica di Fabrizio De Andrè – M. Pagani )

UNA “DEPOSIZIONE DALLA CROCE” DEL SEMINO

A Genova, nella centralissima Piazza De Ferrari, c’é L’ Accademia Ligustica di Belle Arti con il suo piccolo ma interessantissimo museo, che soprattutto conserva opere degli artisti che hanno operato a Genova ed in Liguria, tra questi si può ammirare una pala d’altare realizzata tra il 1532 ed il 1535 dal pittore Antonio Semino ( Genova 1485 c. – 1555) . Il dipinto fu realizzato per la cappella di san Gerolamo nella chiesa di san Domenico che una volta sorgeva dove ora é il teatro dell’opera Carlo Felice; originalmente la pala era completata da una predella che raffigurava i quattro misteri della passione ed era racchiusa in una splendida cornice architettonica in legno intagliato e dorato eseguita probabilmente dallo stesso Semino come al tempo era d’uso. L’opera pittorica fa pensare che il Semino si sia ispirato a dipinti fiamminghi presenti nel suo tempo nella nostra città come per esempio alla “Deposizione ” dipinto da Joos Van Cleve per la chiesa di santa Maria della Pace ora al museo del Louvre. Il dipinto é firmato Antonius de Semino pinxit.

DEDICATO AD UNA POVERA IMPERATRICE

Margherita aveva solo 17 anni quando si sposò con Enrico conte di Lussemburgo che nel 1309 ad Aquisgrana ricevette la corona di re dei romani, titolo che equivaleva a quello d’imperatore designato del Sacro Romano Impero. La coppia reale partì per l’ Italia nel 1310 con un esercito di 5.000 uomini, con lo scopo di riportare l’autorità imperiale nella penisola e dissipare le controversie e le liti tra i vari comuni e le casate guelfe e ghibelline. Durante il soggiorno genovese nel 1311 Margherita morì stroncata dalla peste che aveva contratto precedentemente quando s’era diffusa nell’accampamento dell’esercito reale sotto le mura della città di Brescia. I Genovesi la piansero perché li aveva stupiti per la sua generosità e per la pietà che aveva dimostrato nei confronti dei poveri e degli afflitti. L’imperatore addolorato per la sua morte commissionò ad uno dei più rinomati scultori del suo tempo un’arca sepolcrale a lei destinata, che doveva esser posizionata nella chiesa di San Francesco di Castelletto, Lo scultore Giovanni Pisano venne a Genova nel 1313 e intascò 80 fiorini d’oro versatogli in nome e per conto dell’imperatore Enrico e creò un monumento funebre che ai suoi contemporanei dovette sembrare una meraviglia.. Passarono i secoli durante i quali il monumento venne spostato, poi smembrato sino ad arrivare nel periodo tra il 1798 ed il 1821, quando dopo la soppressione degli ordini religiosi e la requisizione dei loro beni, i marmi trecenteschi furono venduti a privati ed a religiosi separatamente, così che del monumento si persero le tracce. Nella seconda metà del XIX secolo e più precisamente nel 1874, lo scultore Santo Varni riconobbe in un giardino della villa Brignole Sale di Voltri un gruppo statuario che doveva far parte del monumento perduto, da quel momento i ritrovamenti si sono susseguiti ma non così numerosi da poter ricomporre anche solo in maniera ideale il monumento funebre dell’ Imperatrice Margherita, tuttavia il Conservatore Paolo Persano e la sua équipe sono riusciti a ridare un’aspetto dignitoso alla povera Margherita ponendo la ” elevatio animae ” al centro dell’abside della chiesa sconsacrata di S. Agostino, adesso visitabile.

Una curiosità, andando a trovare un mio compagno di scuola, che da molti anni abita in Umbria, a casa sua, ho visto la testa d’una statua che molto probabilmente appartiene a questo gruppo statuario perduto.

UN TEMPIO PER DUE MEDICI

Cosma o Cosimo, come preferirono chiamarlo i genovesi, ebbe un fratello gemello di nome Damiano, nacquero in Arabia nel III secolo dopo Cristo, in Siria appresero l’arte della medicina che esercitarono senza farsi mai pagare dato che ebbero la convinzione che “guarire le persone ” fosse una missione” esattamente come ai giorni nostri…. I loro contemporanei li definirono “anàgiri” che in greco significa senza denaro e, nonostante le loro encomiabili ed edificanti qualità, dato che predicarono la parola di Cristo, durante il regno dell’imperatore romano Diocleziano, furono arrestati, torturati e decapitati nell’anno 303. Le origini del tempio genovese a loro dedicato risalgono all’epoca longobarda , circa VII secolo, la chiesa, originariamente, fu dedicata a san Damiano, solo dal 1304 gli fu unito anche il nome del fratello Cosma o Cosimo che dir si voglia, che diede anche il nome alla piccola piazza dove sorge la chiesa. In questo tempio esiste un sepolcro comune per i chirurghi ed i barbitonsori che ebbero i due santi come patroni. Nonostante che nel 1684 il bombardamento ordinato contro Genova da Luigi XIV re di Francia avesse inferto parecchi danni all’edificio, la pianta interna a tre navate é quella originale del XII secolo con le sue colonne a conci bianchi e neri con capitelli a foglia di reimpiego, così come il corpo di fabbrica e le tre absidi delle quali solo la centrale emerge leggermente. La chiesa custodisce, insieme alle reliquie dei due santi translate a Genova sin dal tempo delle crociate, anche diversi tesori d’arte sacra, peccato che, solitamente, sia chiusa.

photo by G. Morando

FORTE SPERONE UN SET TEATRALE UNICO NEL SUO GENERE

Sulla cima del monte Peralto, c’era ed ancora si può ammirare, un fortilizio che penso fu tra quelli più importanti del sistema difensivo genovese. I Forti furono originariamente costruiti per difendere la città di Genova dagli attacchi dei nemici da terra e successivamente come sentinelle nel periodo della dominazione napoleonica e da quella dei Savoia, pronti ad attaccare la città in caso di ribellioni o sommosse di popolo. Il nome “Sperone” ha origine dal fatto che é localizzato nel punto di unione dei due rami delle Mura Nuove realizzate tra il 1626 ed il 1639 che si estendevano per circa 20 km., questo punto d’incontro situato in cima alla collina origina un caratteristico bastione che ricorda uno sperone. Sul monte Peralto anticamente era posta una fortificazione guelfa chiamata Bastia ( inizio del XIV secolo) della quale non c’é traccia, si pensa che la vecchia rocca fu assorbita nella costruzione delle mura nuove, quello che è certo è che nel XVII secolo del forte attuale non c’era nulla, l’area era cinta da tre bastioni delle mura nuove, solo a metà del XVIII secolo si costruì un forte degno di questo nome, ma fu all’inizio del XIX secolo che iniziarono grossi lavori di trasformazione, i quali durarono una quindicina d’anni e diedero alla fortezza l’aspetto attuale. Il complesso poteva acquartierare circa 300 soldati ai quali se ne potevano aggiungere altri 600 da collocare “paglia a terra “, ovviamente, in un forte che venne costruito su tre livelli collocati a diverse altitudini, l’artiglieria presente in sito era ragguardevole. undici cannoni da 32, sei cannoni da 16, un cannone da 8, nove obici lunghi, due petrieri, tre mortai e 10 cannoncini. La storia di questa fortezza non é però all’altezza delle aspettative che si possono immaginare, nei moti del1849, i genovesi si ribellarono ai Savoia ed il forte fu occupato dai rivoltosi, ma quando arrivò l’esercito piemontese comandato da La Marmora e le cose cominciarono a prendere una brutta piega per i genovesi, cominciarono le diserzioni sino ad arrivare alla resa degli insorti il 10 aprile e lo ” Sperone” fu riconsegnato all’esercito del re del Piemonte e Sardegna. Ancora più avvilente l’uso del forte durante la prima guerra mondiale in quanto fu usato come prigione per i soldati austriaci catturati. Oggi il forte Sperone è di proprietà del Comune di Genova e talvolta usato per rappresentazioni temporanee, mitica quella degli attori del Teatro della Tosse che parecchi anni or sono interpretarono “I Sette Vizi Capitali ” di notte al lume delle torce.

un ringraziamento a Stefano Finauri ed al suo libro “Forti di Genova ”

IL GESU’ DEGLI ABISSI

Era un giorno uggioso, di quelli in cui il “Caligo” spegne i colori e tutto il paesaggio assume una tonalità di grigio fumo, il mio umore poi non era migliore, avevo perso l’amore, il lavoro era in una situazione di stagnazione, per usare un eufemismo, dovevo assolutamente staccare la spina almeno per qualche ora, così decisi d’andare a Camogli, presi il vaporetto per San Fruttuoso dove é la splendida abbazia risalente al XII secolo ove i corpi dei Doria riposano in eterno nelle loro arche di pietra., mi sedetti sulla spiaggia a guardare il mare che aveva il colore d’una lastra d’ardesia e già mi sentii un po’ meglio, dopo di che mi misi la maschera e le pinne , entrai in acqua e cominciai a nuotare verso il largo, ad un certo punto lo vidi, era lì sul fondo che mi guardava con le braccia aperte verso di me, essendo una giornata autunnale e infrasettimanale, non c’era in sito il solito via vai di turisti, barche e motoscafi, eravamo soli Lui ed io, presi un grosso respiro e scesi verso il fondo, Gesù sembrava guardarmi, circondato da un’aureola di castagnole, protendendo le sue braccia verso di me quasi a volermi abbracciare, è difficile descrivere l’emozione che provai, è stato bello arrivare alla sua mano e stringerla tra le mie, poi risalii in superficie pinneggiando lentamente. Quando riaffiorai tutti gli affanni e le preoccupazioni che mi affliggevano da giorni non c’erano più, anche il “caligo ” s’era diradato e dalle nuvole un raggio di sole fece capolino ridando i colori a quella splendida spiaggia ed anche alla mia vita.

P.S. La statua del Cristo degli abissi é una fusione in bronzo posta sui fondali di San Fruttuoso di Camogli nel 1954 a 17 metri di profondità , la statua alta due metri e mezzo fu realizzata dallo scultore Guido Galletti e creata dalla fonderia artistica Battaglia, per realizzare il bronzo della statua furono fuse medaglie ,campane e persino le eliche d’un sottomarino americano.

in Vico del Duca c’é una graziosa……

A Genova, i nativi ben lo sanno, non c’é una piazza, via o vicolo che abbia una statua o qualcos’altro che, in qualche modo, rappresenti il nome a cui è stata dedicata, così in piazza Colombo di Cristoforo non c’é traccia, in piazza Dante non c’é nulla che ricordi il sommo poeta, in via Garibaldi non c’é niente dell’eroe dei due mondi e così via. Vico del Duca non fa eccezione, all’inizio di questo caruggio (vicolo) c’è una nicchia incassata nella parete d’un antico palazzo, ma dentro non ci sono duchi ma i tre re Magi, in compenso, in vico dei tre re Magi non si trova neppure il basso rilievo d’un cammello. In Vico del Duca c’é altro….. Già in tempi remoti i vicoli che dal porto salivano verso piazza delle Fontane Marose, quello che anticamente veniva chiamato monte Albano, era zona di prostituzione e lo è rimasta, un’ istituzione, diciamo così, che viene portata avanti dalla bellezza di 600 anni, invece nella Via del Campo, celebrata dalla bella canzone di Fabrizio De André, é quasi scomparsa. In vico del Duca e nelle aree limitrofe centinaia di professioniste si alternano al lavoro senza soluzione di continuità, un servizio “pubblico” che può essere liberamente professato stante che in Italia la prostituzione non è proibita, a tal proposito vi voglio raccontare di un fatto singolare che mi accaduto, tempo fa volevo andare a vedere una mostra di maioliche antiche allestita al palazzo Spinola di Piazza Pellicceria, splendida dimora “museo ” facilmente raggiungibile percorrendo la via di San luca, ma io ero in via Garibaldi, così pensai di raggiungere il palazzo da Vico del Duca, dopo 50 metri m’ero già perso, vidi una “graziosa” e le chiesi come potevo raggiungere il palazzo, lei molto cortese e disponibile mi diede precise indicazioni che io seguii ma dopo cinque minuti di cammino mi persi nuovamente, vidi un’altra signorina molto sexy che mi guardò e sorridendo mi disse : “Vuole andare a Palazzo Spinola ? ” io risposi di si , lei con molta professionalità tirò fuori dalla borsetta una piantina del Centro Storico e mi fece vedere quali vicoli dovevo ancora percorrere, a questo punto pensai che il Comune di Genova avrebbe dovuto riconoscere a queste ragazze un compenso da pseudo guide turistiche in quanto suppliscono alla cronica mancanza di cartelli ed indicazioni per raggiungere uno dei più bei palazzi del centro storico di Genova.

LA PORTA SOPRANA

La porta di Sant’Andrea posta sull’omonimo colle spianato all’inizio del ‘900, era chiamata “Soprana ” perché si trovava rialzata rispetto alla città vecchia, faceva parte del complesso difensivo eretto nel XII secolo dai genovesi per far fronte alle minacce dell’imperatore Federico Barbarossa, il quale, saputo che i genovesi non ne volevano sapere di diventare suoi vassalli e di sottomettersi alla sua autorità, furibondo contro tale impudenza, aveva minacciato di scagliare il suo potente esercito contro Genova, di raderla al suolo uccidendo tutti i suoi abitanti. Messe da parte per una volta le lotte intestine tra le diverse famiglie nobili, tutta quanta la popolazione, uomini, ragazzi, donne compresi anche diaconi ed i preti si misero all’opera per costruire una nuova cinta di mura più possente rispetto alla precedente risalente al X secolo, la porta Soprana era quella che consentiva l’ingresso alla città da est, rivolta idealmente verso Roma. All’interno della porta si leggono diverse iscrizioni poste su lapidi marmoree, in una di queste si legge la seguente frase latina: “SI PACEM PORTAS, LICET HAS TIBI TANGERE PORTAS, SI BELLUM QUERES, TRISTIS VICTUSQUE RECEDES ” che in pratica significa: se vieni in pace ti è lecito toccare ( attraversare ) queste porte, ce cerchi la guerra ti ritirerai infelice e sconfitto. Una curiosità, quando la porta Soprana e le sue torri furono restaurate nel1890 sotto la direzione del D’Andrade, in una di esse fu ritrovata la ghigliottina che nel periodo della dominazione napoleonica fu usata a Genova per le esecuzioni capitali.

C’ERA UNA VOLTA IL “GRAN CHIANTI”

A Genova, all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, nella mitica Sottoripa, c’era un localino ed ancora c’é che si chiamava “Gran Chianti”, uno, se non il primo, a servire solo panini e vino. Il locale é piccolo e si mangiava rigorosamente in piedi, dato che spazio per sedie e tavolini non ce n’era, la varietà dei panini che si potevano richiedere era veramente considerevole, si spaziava dallo speck con il burro di malga alla porchetta romana, dal prosciutto della Foresta Nera al vitello tonnato , dall’arrosto di vitello con lattuga alla “Cima alla genovese “, dal salame di Sant’Olcese ai coglioni di mulo ( questi non ho mai avuto il coraggio d’assaggiarli , anche se sapevo che era un salume chiamato così per la sua caratteristica forma); verso il mezzogiorno, una folla eterogenea formata da ragazzi, impiegati, portuali e turisti ( a quel tempo pochi ), si metteva ordinatamente in fila aspettando il suo turno per mangiare l’agognato panino ch’era sempre croccante perché appena sfornato, nessuno cercava di fare il furbetto per guadagnare qualche posizione, ne spingeva, ma tutti guardavano la piccola vetrina posta sulla strada pensando a quale panino si sarebbero fatti fare. Il locale ancora c’é, da molto tempo ha cambiato nome adesso di chiama “Gran Ristoro ” e forse il nome è più appropriato.

Senza “raieu au tocco” non c’é Natale

I Raieu (ravioli) au tocco sono il piatto principe per la festa di Natale nella tradizione genovese, a casa mia era impossibile immaginare un Natale senza i ravioli, quelli fatti a mano con il ripieno misto di carne e borragine e conditi con “il Tocco” (si pronuncia tuccu ). La ricetta é antica ed é vivamente sconsigliata per chi ama le preparazioni veloci, il nome “tocco ” deriva dal fatto che per fare il sugo si prende un pezzo di manzo intero salato quanto basta, che viene messo in un tegame di terracotta a cuocere lentamente su un trito di cipolle e carote con olio extra vergine di oliva (poco) ed un pezzo di burro (abbondante ), a cui vengono aggiunti in seconda battuta funghi porcini secchi ammorbiditi in acqua e in parte tritati, prezzemolo ed aglio tritati, vino rosso, due o tre cucchiai di conserva di pomodoro diluiti con del brodo caldo, il brodo poi si versa pian piano in modo che la carne si consumi lentamente senza mai attaccarsi al fondo del tegame e per fare ciò la carne deve essere girata e rigirata continuamente per 3/4 ore sino a che non si consuma riducendosi ad un terzo della consistenza che aveva ad inizio cottura. Come detto è un piatto un po’ impegnativo, ma il risultato é fantastico.

Filastrocca di Natale in Zeneize

….”Gloria l’artisscimo Segnò, nostro poae, nostro fattò. Gloria a-o figgio Re Divin, ch’o l’é vosciuo nasce bambin, comme mi comme voiatri tutti, con ‘na sola differenza, che malgraddo a seu potenza o l’è vosciuo nasce figgieu in to mezo a l’aze e a-o beu; un po de paggia en a seu chinn-a e pe faghe a seu cascinn-a c’o se poese ariparà da-o gran freido de zenà. Dunque ammiaelo, ammiaelo assae. Bambin cao, Bambin celeste Caldamente queste feste mi ve prego a benedì quante semmo chi a sentì. Benedime mae papà, benedime mae mamà, fae che questa compagnia segge tutta benedia e con feste e gioie e riso s’adormiaemo in Paradiso.

traduzione per i foresti ( non genovesi )

Gloria all’ Altissimo Signore, nostro padre , nostro fattore, Gloria al Figlio Re Divino che ha voluto nascere bambino, come me, come voi tutti, con una sola differenza, che malgrado la sua potenza é voluto nascere bambino in mezzo ad un asino ed a un bue; un po’ di paglia nella sua culla e per fargli la sua cascina per potersi riparare dal gran freddo di gennaio. Dunque guardatelo guardatelo bene, Bambino caro, Bambino celeste caldamente queste feste io vi prego di benedire quanti siamo qui a sentire. Beneditemi mio papà, beneditemi mia mamma, fate che questa compagnia sia tutta benedetta con feste, gioie e riso ci addormenteremo in Paradiso.

Da un canto della Valbisagno d’un anonimo

nella foto le luminarie poste al monumento di Vittorio Emanuele II in Piazza Corvetto. E … BUON NATALE A TUTTI! da Mauro Silvio

IL COMO’ LUIGI XVI A GENOVA

Sul finire del secolo XVIII a Genova, con l’imporsi dello stile neoclassico portato in auge da artisti come Antonio Canova e Thorvadsen, si assiste ad un graduale cambiamento nella costruzione dei mobili da parte dei bancalari ( falegnami ) genovesi, che, come in altre regioni italiane, cominciarono a costruire i loro manufatti ispirandosi in parte ai ritrovamenti effettuati durante gli scavi di Ercolano e di Pompei . Il periodo del primo neoclassicismo chiamato Luigi XVI è posizionato tra il 1774 ed il 1790, tuttavia esiste un periodo cosiddetto di transizione che allungò di qualche anno questo spazio temporale, questi mobili sono distinguibili dagli altri perché conservano alcune caratteristiche del rococò, modificate però secondo i nuovi dettami della moda che, anche in questo caso, ha Parigi e la Francia come riferimento. In questo mio post andiamo a descrivere un comò genovese perché, anche in questo caso, dal comò derivarono tutta una serie di mobili e mobilini che a lui faranno riferimento. Il comò illustrato nella foto é uno splendido mobile genovese, anche se il ricco repertorio decorativo utilizzato per gli intarsi riprende alcuni elementi presenti in analoghi mobili intarsiati nell’area milanese. Il fronte del comò è dritto a due cassetti e da un tiretto soprastante sostenuto da una catena , i montanti sporgenti dal corpo del mobile sono sagomati a parallelepipedo e desinenti verso il basso con sostegni sagomati a piramide rovesciata terminante con bicchierini in bronzo ingentiliti da un motivo fitomorfo sulla loro sommità, il piano in marmo verde delle alpi è leggermente sporgente e segue l’andamento del mobile. Il comò realizzato in legno povero, é lastronato al centro in bois de violette sagomato a lisca di pesce, filettato in bosso con motivi lanceolati ed incorniciato da una fascia in acero tinto in verde con intarsi che ricordano grifoni contrapposti probabilmente desunti da motivi delle “grottesche”, il tutto impreziosito da maniglie e bocchette in bronzo cesellato e dorato a fuoco. Non sappiamo chi fu l’artefice di questo splendido comò, contrariamente a quanto avvenne in Francia, dove i mobili, obbligatoriamente, dovettero avere i marchi del mastro costruttore, a Genova l’obbligo si fermò all’iscrizione alla Corporazione dei “Bancalari”, quindi diciamo che é estremamente raro trovare una firma su un mobile genovese , io, in tanti anni di lavoro, l’ho trovata solo due volte.

LA CHIESA DELLA MIA INFANZIA

Santa Margherita di Marassi non è un tempio che richiama visitatori e turisti, posta dietro la stadio di calcio e collocata su una piazza sopraelevata a metà di via Bertuccioni, la parrocchiale si distingue per le sue forme armoniose ed eleganti. Le prime notizie d’un edificio religioso collocato in loco risalgono addirittura al X secolo ma i primi scritti che ne attestano storicamente l’esistenza sono del 1027, si sa che fu scelta quella posizione sopraelevata per salvaguardarla dalle piene del torrente Bisagno, che, anche a quel tempo, provocavano gravi danni alle case limitrofe al corso d’acqua ed alle popolazioni della valle. Dopo esser passata al clero secolare, poi ai Francescani, poi nuovamente al clero secolare ed ai Carmelitani, fu infine affidata ai P.P. Minimi di san Francesco da Paola. Durante la seconda guerra mondiale, nel 15 Novembre del 1942, subì gravi danni da parte d’un bombardamento della R.A.F. le cui bombe sfondarono il tetto e provocarono incendi che, fortunatamente, non distrussero, se non in parte, le opere d’arte contenute nella chiesa tra cui dipinti di pittori genovesi quali Bernardo Castello e di Gio Battista Carlone. I miei primi ricordi di questo tempio sono le candele, si centinaia e centinaia di candele che rischiararono a giorno la chiesa, accese per grazia ricevuta dai famigliari dei reduci ritornati dalla guerra e dai campi di prigionia, o da quelli, come mia nonna, che pregarono per il ritorno dei loro figli dispersi sui campi di battaglia nelle steppe russe. All’età di 10 anni la mia famiglia si trasferì in un altro quartiere e lì non tornai più, il ricordo più grosso che mi é rimasto della chiesa è l’affresco risalente alla metà del XIX secolo che decora il catino dell’abside rappresentante l’ultima cena di Gesù, quando ero bambino mi chiesi chi fosse la ragazza alla destra del Nostro Signore, per questa domanda ricevetti un sonoro scappellotto sulla zucca da Padre Pietro, il quale mi spiegò che non si trattava d’una donna ma di san Giovanni.

STORIA D’UNA MADONNA DIMENTICATA

Molti dei palazzi nobiliari genovesi iscritti nei “Rolli” (*) ebbero , diciamo così, una vita travagliata, alcuni vennero pesantemente danneggiati dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, ma già nel 1684 la flotta da guerra del re di Francia Luigi XIV, detto re Sole, con i loro mortai, avevano causato gravi danni alla nostra città, poi nel periodo di decadenza, l’incuria, l’abbandono, i danni dati dal tempo e dagli agenti atmosferici fecero il resto, tuttavia i più prestigiosi sono ancora lì a ricordarci che la nostra bella città tra il XVII ed il XVIII secolo ebbe palazzi così splendidi da incantare un artista del calibro di Rubens che delle dimore genovesi scrisse un libro decantandone la bellezza e la maestosità. Uno di questi è il palazzo De Mari a Campetto, dopo molti passaggi di proprietà, come già scrissi in un mio post precedente, fu acquistato da una società che lo adibì in parte a scopi commerciali e così in primis la UPIM trovò casa lì al pian terreno ed al primo piano, dopo le subentrò un altro grande magazzino l’ OVS. Prima di fare il nuovo allestimento, i dirigenti dell’OVS decisero di restaurare gli interni rinfrescando i muri ed i soffitti degli spazi adibiti alla vendita, fu in questo periodo che accadde un fatto singolare, un muratore che martellava un intonaco ammalorato da una chiazza d’umidità, si accorse che il muro dava un suono sordo come se li fosse una cavità, allora chiamato il capo cantiere, si decise di creare una piccola apertura per vedere cosa ci fosse dietro e fatta questa operazione restarono stupefatti, la parete nascondeva uno splendido “pregadio ” (**) cioè un altarolo in marmo fior di pesco con sopra una Madonna della Misericordia con il beato Botta in marmo bianco di Carrara, tutto ciò inserito in un nicchione decorato a stucco con le tipiche modanature e volute dello stile barocchetto genovese, opera databile alla prima metà del XVIII secolo. Oggi il visitatore attento lo può ammirare protetto da una lastra di cristallo., un piccolo capolavoro da molti anni dimenticato e riportato casualmente alla luce.

(*) i ” Rolli ” erano degli elenchi in cui venivano iscritti i palazzi nobiliari più prestigiosi , tra questi, i padri del Comune estraevano a sorte quali dovessero ospitare personaggi di alto rango che arrivavano a Genova in nome e per conto della Serenissima Repubblica.

(**) I “Pregadio ” erano posti nei palazzi nobiliari per poter assistere alla celebrazione della messa in casa , senza necessariamente recarsi in chiesa nei periodi di cattivo tempo o quando non si desiderava incontrare nessuno.

SALVIAMO LA NOSTRA STORIA

A Genova , é risaputo, la carenza di spazio ha fatto si che la città si sia sviluppata verticalmente, il nostro centro storico ne è un buon testimone con i suoi alti palazzi talvolta abbruttiti da sopraelevazioni deturpanti, persino alcuni edifici di culto non hanno potuto sfuggire a questo esasperato bisogno di spazio, sino ad arrivare all’assurdo di costruire un edificio negli anni 30 del secolo scorso sopra un tempio di origini trecentesche dedicato a San Nicolosio. In questa chiesa, sovrastante l’altar maggiore, si trova un dipinto realizzato da Gio. Andrea De Ferrari che sta andando letteralmente in malora. Ma chi fu Gio. Andrea De Ferrari? rispondo in breve, fu uno degli artisti genovesi che conribuì all’affermarsi dello stile barocco nella nostra città, uno dei protagonisti della pittura della prima metà del 1600 a Genova. Il Nostro, nato nel 1598 a Genova, si formò nella bottega di Bernardo Castello e poi in quella di Bernardo Strozzi, ma già a soli vent’anni aprì una propria bottega in casa sua. detto ciò vi vorrei parlare di questo grande dipinto posto in una nicchia marmorea preesistente. Il dipinto raffigura un San Francesco d’Assisi che presenta a Gesù ed alla Madonna circondata da cherubini, il re di Francia Ludovico IX ed Elisabetta regina del Portogallo, ambedue santificati. La tela é monumentale ed originariamente era posta nell’oratorio della chiesa di san Francesco di Castelletto ora non più esistente. I membri del Terz’Ordine Francescano nel 1804 si trasferirono nella chiesa di san Nicolosio, o Nicola che dir si voglia, portando con loro le opere artistiche che erano custodite nella sede demolita, tra queste anche questo dipinto che risale alla fine del primo quarto del XVII secolo. Recentemente é iniziata una raccolta fondi per poterlo salvare dall’ammaloramento che rischia di distruggerlo per sempre. Vi chiederete ma perché salvare un dipinto di una chiesa della quale i più ignorano l’esistenza? Perché salvando questo quadro salviamo anche noi stessi, perché lui è parte della nostra storia, del nostro vissuto, del passato che testimonia la grandezza della nostra città nel ‘600 il suo ” Secolo d’Oro”, per questo vi prego fate si che questo capolavoro giovanile del De Ferrari possa risorgere e testimoniare con la sua bellezza il mecenatismo dei genovesi che, a torto, sono stati sempre descritti con il braccino corto. Grazie a tutti

P.S. vi pubblico l’IBAN della Banca Passadore messo a disposizione per questa raccolta fondi pubblicato sul Secolo XIX :

IT11R03332 01400 000000968449

OTTOMANI BARBARESCHI MORI & C.

Genova era ed é una città multietnica per tradizione, già in epoca medioevale la città era popolata da folte comunità di “foresti ” ( stranieri ) ed anche di schiavi come testimonia un documento datato 1482. Queste persone ridotte in schiavitù provenivano in parte dal Levante ed altre dalle coste africane, prevalentemente erano sudditi ottomani e barbareschi presi prigionieri in battaglia e nelle numerose guerre di “Corsa ” o anche acquistati su altre piazze. La schiavitù nel mar Mediterraneo funzionava a doppio senso, i cristiani schiavizzavano i nemici catturati e loro facevano lo stesso ai cristiani che cadevano nelle loro mani durante le scorrerie lungo le coste liguri, a Genova esisteva un apposito “Magistrato del Riscatto ” con il compito di negoziare la liberazione di nostri concittadini mediante il pagamento d’una cifra che variava a seconda dell’importanza della persona imprigionata. Gli schiavi a Genova, se di robusta costituzione, venivano incatenati ai remi delle galee, altrimenti erano destinati al servizio domestico, alcuni di loro, chiamati “papassi ” godevano di diversi privilegi rispetto ai loro compagni di prigionia, tra i quali la “rappresentanza ” una forma antesignana di sindacalista. I bambini nati dalle schiave seguivano la sorte dei loro genitori, se graziosi, venivano usati come paggetti come si evince da questo bel dipinto di Domenico Parodi ( Genova 1672 – 1742 ), databile al primo quarto del XVIII secolo, che raffigura una dama genovese con il suo paggio. Tutto quanto da me scritto é ben rappresentato nella mostra: “OTTOMANI BARBARESCHI MORI E ALTRE GENTI NELL’ARTE A GENOVA ” FASCINAZIONI SCONTRI SCAMBI NEI SECOLI XVII – XVIII allestita nello splendido palazzo Lomellino di via Garibaldi.

“I VIAGGIATORI” di Bruno Catalano

A Genova da un po’ di tempo si possono ammirare alcune statue bronzee dello scultore Bruno Catalano. Questi viaggiatori, perché di viaggiatori stiamo parlando, con il loro bagaglio a mano sparsi nella nostra città, attirano folle di turisti e curiosi, molti li fotografano, ammirandone la grandezza e la maestria con cui l’artista è riuscito a trovare un equilibrio tra “vuoti e pieni “, altri distrattamente li superano scuotendo la testa pensando siano una stranezza d’arte moderna, nessuno si sofferma a guardarli per più d’un minuto, invece ne varrebbe la pena, perché in queste statue l’artista ha cercato di rappresentare il dolore dello sradicamento dal proprio paese, dalle proprie radici e la speranza d’un migliore destino. La dimensione gigantesca li trasforma in personaggi eroici, pur restando uomini e donne facenti parte del nostro quotidiano, persone che partono con i loro ricordi, loro storia ed anche la precarietà del loro equilibrio tra passato, presente e futuro, le parti mancanti delle statue sono finestre nelle quali riconoscersi , metafore che rappresentano il viaggio della nostra vita.

Giannettino Luxoro… chi era costui?

I Luxoro fecero parte della ricca borghesia genovese, l’ingegnere Pietro Luxoro fece edificare una villa nella parte più orientale della zona di Capolungo (Nervi) nel 1903, la costruzione in stile fin de siècle venne usata dai Luxoro, che erano tre fratelli, come residenza di villeggiatura estiva essendo la casa immersa in un parco prospicente al mare. In questa elegante dimora i Luxoro, appassionati collezionisti di cose genovesi e non solo, accumularono ogni sorta di interessantissimi oggetti che vanno dagli orologi antichi da tavolo, ai mobili genovesi del XVIII secolo, alle statuine presepiali con le quali venivano allestiti splendidi presepi nei giorni dell’avvento ed a tanti altri oggetti preziosi come la stupenda raccolta di acquasantine genovesi in argento sbalzato e cesellato. I tre fratelli non ebbero discendenti a parte Giuseppe che ebbe un figlio chiamato Giannettino, il quale certamente non sarebbe passato alla storia poiché, quando scoppiò la prima guerra mondiale, si arruolò nel regio esercito e, come tanti altri giovani della sua generazione, fu trucidato dalla mitraglia nemica nel corso di uno dei tanti assalti comandati ai nostri soldati per conquistare qualche centinaio di metri di territorio austriaco, ma quando nel 1946 l’ultimo discendente della famiglia morì lasciando per atto testamentario la villa con tutti il suoi preziosi arredi e collezioni al Comune di Genova, la casa museo fu intitolata proprio a Giannettino Luxoro il membro più giovane e sfortunato di questa famiglia. Il museo chiuso da molti anni é stato riaperto il primo Novembre di quest’anno, visitatelo, é un’esperienza molto interessante e poi potete terminare la giornata nella splendida passeggiata di Nervi e prendervi un aperitivo in quell’angolo di paradiso.

Nella foto un particolare della casa museo ci mostra una portantina del XVIII secolo, a Genova, data la tipologia delle strade, molto strette e anguste, di carrozze se ne vedevano poche, per i nobili era molto più pratico farsi trasportare in portantina, ciò evidenziava il loro rango mettendo in bella mostra il blasone di famiglia dipinto sullo sportello ed evitava di confondersi con i comuni cittadini, mercanti ed accattoni che pullulavano nel centro storico.

“Pietro Tempesta” fiammingo ma genovese per forza

Si chiamava Pieter Mullier il giovane, dato che suo padre, anch’egli pittore, aveva il suo stesso nome, il Nostro nacque nel 1637 e si formò ad Harlem nella bottega paterna, si trasferì in Italia nel 1656 all’età di 19 anni dove è documentata la sua presenza a Roma e dove rimase sino al 1668. Nella città eterna aggiornò il suo modo dipingere e presto, grazie alla sua bravura, ebbe importanti commissioni da parte di potenti famiglie quali i Chigi, i Colonna ed i Borghese, soprattutto si affermò come pittore di marine tempestose tanto da esser detto ” Cavalier Tempesta “. Nel 1668 si recò a Genova dove nel suo “Secolo D’Oro ” non mancarono né i lavori, né il denaro per poterli pagare profumatamente. Nella nostra città lasciò numerosi dipinti da stanza ed anche affreschi come anche oggi possiamo ammirare nel bel palazzo Lomellino di via Garibaldi. Continuando a firmarsi Pietro Tempesta, realizzò non soltanto dipinti di genere marino, ma anche iconografie di paesaggio boschivo in cui possiamo scorgere personaggi ed animali dipinti con un pennellata minuta, castelli e costruzioni classiche poste sulle alture fanno da cornice ad un paesaggio che potremmo definire pre-arcadico. Quando la sua fortuna critica raggiunse l’apice, si innamorò perdutamente d’una nobile piemontese di nome Eleonora Beltrami, già sposata ma abbandonata dal consorte, anche il nostro “Tempesta” s’era sposato a Roma con una certa Lucia da cui aveva avuto figli e che, per tenersi in esercizio, ne aveva avuto altri quando il marito era stanziale a Genova, così, il Tempesta, essendo venuto a conoscenza che sua moglie aveva intenzione di raggiungerlo con la numerosa prole, pagò due sicari che l’ammazzarono nei pressi di Sarzana dove era giunta. Ma si sa che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, la cosa fu scoperta ed il Tempesta fu arrestato come mandante dell’uxoricidio. Condotto al palazzetto criminale fu torturato come si deve e naturalmente confessò la sua colpa, quindi fu condannato a 20 anni di prigione e rinchiuso nella torre Grimaldina, ma dato che sembrava un peccato sprecare tanto talento, ebbe il privilegio d’esser , diciamo così, ospitato nel luminoso vano dove era la campana detta del Popolo, e lì poté continuare a dipingere, Dopo 9 anni fu liberato grazie all’interessamento del Borromeo suo protettore ed anche del governatore spagnolo di Milano, uscito di prigione si trasferì nella bella città Meneghina aprendo una fiorente bottega dove si formò il nostro più famoso pittore di paesaggio “Il Tavella “. La morale di questa storia é che da sempre” La Giustizia é uguale per tutti!” ma per qualcuno é diversamente uguale.

IL dipinto nella foto é un paesaggio di Pietro Tempesta realizzato a olio su tela di nobile provenienza, dimensioni cm. 123 x 168 ottimo lo stato di conservazione, collezione privata in vendita. Se interessati all’acquisto potete scrivermi una e-mail a maurosilvio.burlando@gmail.com

IL COMO’ GENOVESE DELLA PRIMA META’ DEL ‘700

” Le XVIII ème siècle est le siècle des femmes” non ricordo più chi lo ha affermato ma, quando si parla di mobili, è certamente vero, per esempio il comò si trasforma e dalla grandiosità dello stile “barocco ” volto stupire ed impressionare, passa allo stile “barocchetto ” o rococò che dir si voglia, uno stile sinuoso e leggiadro in cui l’andamento curvilineo richiama prepotentemente il corpo femminile. Lo stile rococò nacque a Parigi, capitale incontrastata della moda nel’700 e da lì si diffuse a macchia d’olio anche nei vari stati italiani, a Genova ed a Venezia ci furono senza dubbio tra i migliori ebanisti interpreti di questo stile, che, pur ispirandosi ai modi francesi, crearono mobili che, per la loro bellezza ed originalità sono ancora oggi apprezzati in tutto il mondo. La produzione del mobile barocchetto genovese inizia nel 1720 e termina nel 1774 circa con l’avvento del mobile neoclassico conosciuto generalmente con il nome di stile Luigi XVI. Possiamo affermare che il “barocchetto genovese ” si sviluppa in tre fasi: il mobile del 1720, il mobile dal 1730 al 1740 ed infine quello del 1750 a seguire. I mobili hanno tuttavia la stessa impostazione, eleganti, ma all’inizio più rigidi, man mano che passa il tempo le loro linee diventano più morbide, curvilinee ed estremamente raffinate; il comò o cassettone è forse il mobile più significativo, anche perché da questo derivano i cantonali, le ribalte, le ribalte con alzata , chiamati impropriamente trumeaux ed i comodini. Quello mostrato nella foto soprastante é un comò databile al 1740 circa, le gambe curvilinee sono calzate in eleganti zoccoli in bronzo cesellato a mano e dorato al mercurio, tecnica che, fortunatamente, nel XIX secolo fu abolita perché gli addetti ai lavori di doratura avevano la vita molto breve …… le gambe si raccordano con la traversa bassa che contiene il cosiddetto grembiule mistilineo, le catene tra i cassetti non sono più a vista, in questo caso i cassetti sono tre di uguale misura, i montanti sono mossi ad ” S ” e formano un tutt’uno con le gambe, sono chiamati dagli addetti ai lavori ” alette “, il fronte del mobile é a doppia curva e decorato con maniglie e bocchette in bronzo cesellato e dorato, anche il fianco é mosso, mentre il piano, in questo caso in marmo broccatello di Spagna, segue l’andamento del corpo del mobile, lo spessore del piano in “palmi genovesi ” ( il sistema metrico decimale sarà adottato solo dalla metà del XIX secolo ) corrisponde a circa 2,7 cm. Lo scheletro del mobile è in legno povero lastronato con essenze lignee pregiate come il palissandro, il noce d’india, il bois de rose e il bois de violette.

Dedicato alla memoria del mio amico e collega Max Segala

SERPENTI GENOVESI

Sin da bambino amavo gli animali, per contro detestavo con tutte le mie forze ogni forma di coercizione a cui gli animali sono sottoposti, al circo mi ci dovevano trascinare con la forza e non parliamo poi d’andare allo zoo, fortunatamente a Genova veri e propri zoo non ce ne sono mai stati se si escludono le grandi voliere che molti anni or sono erano ubicate nella villetta Di Negro, ciò detto, mia nonna, ogni tanto, mi accompagnava al museo di storia naturale dove si potevano vedere ben seimila esemplari di animali, fossili e minerali, quelli mi facevano meno pena perché, nella mia immaginazione, pensavo fossero morti di vecchiaia e che poi li avessero imbalsamati per tramandarne il ricordo , un po’ come per i faraoni d’Egitto. Il museo fondato nel 1867 è uno dei piu’ antichi di Genova, da molto tempo non lo visitavo più’ , solo recentemente sono andato a vedere una mostra di serpenti, ce ne sono esposte molte specie, nonostante il loro aspetto per niente amichevole, mi hanno fatto una gran pena cosi costretti in spazi angusti nonostante le loro ragguardevoli dimensioni. Comunque è stata un’ opportunita’ che mi ha consentito di contemplare animali che, fortunatamente, è difficile incontrare nei nostri boschi. La mostra sarà protratta sino alla fine di quest’anno. Nella foto un boa arboricolo del Madagascar, serpente che vive in ambienti paludosi ed acquatici nascondendosi nella fitta vegetazione, sono creature notturne e solitarie, eccellenti nuotatori trascorrono gran parte della loro vita in acqua, dove cacciano le loro prede che vengono, prima d’essere divorate, soffocate nelle loro spire, possono raggiungere i 4,5 metri di lunghezza .

Un Fastigio del “Barocco” che più barocco non si può

Girovagando per il centro storico di Genova, arrivati a ” Campetto “, si può ammirare lo splendido palazzo del Melograno realizzato alla fine del ‘500, appartenuto prima agli Imperiale, poi ai Sauli, ai De Mari ed infine ai Casareto i quali lo vendettero ad una società che in parte lo adibì ad uso commerciale; fu così che in questo avito palazzo si installò prima un UPIM e poi un OVS. Al piano terreno si può ammirare circondato da reggiseni, camicie da notte e mutande un bellissimo ninfeo realizzato in marmo bianco di Carrara nella seconda metà del XVII secolo da uno dei più talentuosi scultori genovesi Filippo Parodi ( Genova 1630 – 1702 ). Filippo da ragazzino fu avviato al mestiere di bancalaro ( falegname ) diventando in poco tempo bravissimo nell’arte dell’intaglio, a soli 25 anni si recò a Roma dove s’ incantò nel vedere le opere scultoree del Bernini, stette a Roma per sei anni quindi ritornò a Genova dove conobbe lo scultore francese Pierre Puget che realizzò per la famiglia Sauli grandi statue per la loro basilica a Carignano, questo incontro fu determinante per la sua definitiva formazione e la sua poetica come si evince guardando questo ninfeo rappresentante un gigantesco Ercole che sconfigge L’Idra di Lerna. Filippo Parodi s’impossessò dello stile barocco e lo fece suo lasciandoci tanti capolavori. Dovete sapere però che “Barocco ” all’inizio non fu semplicemente il nome dato ad uno stile artistico, ma fu usato in senso dispregiativo, infatti la parola “Barocco ” deriva dal portoghese “Barroco ” che significa una perla imperfetta, la parola “Baroque ” in francese significa stravagante, fuori dai canoni tradizionali ed ancora sinonimo di un gusto pesante, enfatico, ampolloso, prolisso e chi più ne ha più ne metta. Oggi per ” Barocco” intendiamo riferirci ad uno stile nato a Roma per celebrare i fasti della Chiesa Cattolica in contrapposizione con la riforma Luterana i cui maggiori esponenti furono Berrettini, Bernini e Borromini, però con l’accostamento dell’Ercole di palazzo del Melograno con i reggipetti mi pare che siamo prepotentemente tornati alla sua prima definizione.

UNA “MARINELLA” A NERVI

Nervi segna la fine della grande Genova a Levante, il suo nome é famoso in tutto il mondo, così come sono famosi i suoi splendidi parchi e la sua passeggiata a mare; percorrendola, ad un certo punto, ci si trova di fronte ad una curiosa costruzione ” La Marinella ” .l’edificio é simile ad un vascello al quale sia stato tolto lo scafo, questo locale risale al secondo decennio del secolo scorso, nasceva come un caffè e nella sua struttura riecheggiava il periodo della “Belle Epoque ” con le sue vetrate arabescate e la sua struttura in ferro lavorato, fu frequentata in quel tempo da numerosi ospiti stranieri ai quali offriva spettacoli d’arte varia, danze esotiche ed una buona cucina. Nel 1934 l’edificio fu riprogettato dall’ architetto Giacomo Carlo Nicoli , la costruzione esternamente richiamava, come detto, una nave con i suoi oblò al posto delle finestre, le vetrate, i parapetti delle balconate ed il suo albero maestro, in uno spazio ad emiciclo vi era un ampio salone centrale che s’affacciava sul mare e da lì una scala sinuosa conduceva ai soprastanti terrazzi. Il salone fu utilizzato come sala da ballo con un’orchestra che suonava dal vivo. Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso l’edificio fu sopraelevato di un piano, una variante, per usare un eufemismo, non felice per la costruzione originaria, poi venne il periodo della decadenza dagli anni ’60 in avanti, sino ad arrivare alle terribili mareggiate ed agli uragani di questo ultimo ventennio che ridussero in macerie gran parte della struttura. Oggi, come l’araba fenice che risorgeva sempre dalle sue ceneri, anche la Marinella é di nuovo lì di fronte al suo mare, lì dove più di cento anni fa l’avevano creata.

“COLONIALI” sapori ed odori d’un tempo che fu

Passeggiando per il centro di Genova e percorrendo la via Galata si arriva alla splendida piazza Colombo, una piazza ottagonale circondata da palazzi ottocenteschi ed impreziosita nel mezzo da un antico barchile in marmo bianco di Carrara opera dei Corradi e di Giobatta Orsolino anticamente posto in cima a via Ponte Reale e poi, come accadde a tanti monumenti genovesi, traslocato dove oggi lo si può ammirare. Dalla piazza, percorrendo la via omonima, subito sulla vostra sinistra vedrete l’insegna della antica drogheria Viganego in sito dal 1931, sull’insegna c’é scritto “Coloniali ” perché molti anni or sono Genova aveva colonie e fondaci sparsi in tutto il Mediterraneo ed il mar Nero, da questi venivano imbarcate spezie e prodotti esotici da esportare nella Madrepatria. La drogheria ha mantenuto intatte nel tempo le sue caratteristiche, ciò si evince guardando le vecchie tramezze, i suoi solai con le travature in legno coperte da cannicci, il pavimento in piastrelle cementine come era d’uso sin dal XIX secolo, gli arredi sono quasi tutti originali in legno, dalla porta d’ingresso alle cassettiere ed ai banconi, ma quello che colpisce di più entrando in questa storica bottega é l’odore, un odore particolare, indefinibile, leggero ma persistente, che ti riporta indietro nel tempo, al bel tempo che fu e che non ritornerà mai più.

IL VICO DELLA SPERANZA

Passeggiando per i caruggi del centro storico di Genova s’incontrano capolavori grandi e piccoli, molte volte la mancanza di tempo ci porta a correre ed a non accorgerci del bello che ci circonda, a me, per esempio é capitato di attraversare la zona dei Macelli di Soziglia e di non aver mai notato un piccolo caruggio dal nome emblematico il ” Vico della Speranza “. Alla mia, lasciatemelo dire, veneranda età di oltre 75 anni, ho smesso di correre e quando passeggio per la nostra Genova, mi soffermo a guardare ed a riflettere sulle cose, il ” Vico della Speranza”, prende il nome probabilmente da una statua della Vergine Maria inserita in una sontuosa edicola d’epoca tardo barocca. La devozione nei confronti della Madre di Dio fu sempre fortissima da parte dei genovesi, molto prima che l’Immacolata fosse eletta regina di Genova nel 1637. L’edicola sacra che contiene la Madonnina, statua purtroppo non l’originale finito chissà dove, ha un drappeggio forse in marmo dipinto d’azzurro che mette in bella evidenza il tabernacolo avente un angelo stilizzato a destra ed a sinistra con la parte desinente verso in basso costituita da un ricciolo rivolto verso l’interno, al di sotto del quale possiamo leggere una scritta : “AVE MARIA ERE ABITANTIUM IN HOC VICULO” che ci fa sapere orgogliosamente che sono gli abitanti di questo vicolo gli artefici di questa santa edicola datata 1789, proprio pochi anni prima della fine della gloriosa Serenissima Repubblica Genovese.

“NOSTALGIA” una mostra imperdibile

Forse non tutti sanno che la parola “Nostalgia” é stata inventata da uno studente in medicina di nome Johannes Hofer che si laureò a Basilea nel1688. La sua Tesi verteva su una patologia già esistente dalla notte dei tempi, ma a cui nessuno aveva pensato di dare un nome, così l’Hofer unendo le parole d’origine greca “nostos” ( ritorno ) e “algos ” (dolore) inventò questo nuovo vocabolo “nostalgia ” che prima o poi noi tutti abbiamo sperimentato, un sentimento che può coinvolgerci in tante maniere diverse, tranne le persone, beate loro, che guardano sempre avanti e non si fermano mai a fare bilanci del proprio vissuto, rivolgendo il pensiero al passato. Alcuni miei lettori penseranno: è un sentimento che contraddistingue le persone d’una certa età, può darsi, ma non credo, per esempio mio padre morì che non avevo ancora compiuto l’età di 4 anni ed anche se così piccolo, provavo nostalgia e dolore per la sua perdita. La mostra allestita nel Palazzo Ducale di Genova dal 25 aprile al 1 Settembre ci mostra tutti i vari aspetti in cui, artisti d’ogni epoca, hanno interpretato questo sentimento con le loro opere. Pubblico il dipinto sul quale mi sono soffermato di più, un olio su tela del 1894 dipinto da Raffaello Gambogi ( Livorno 1874 -Antignano 1943 ) l’opera riproduce, con crudo realismo, un gruppo d’emigranti italiani che dal porto di Livorno s’imbarcano su un bastimento verso il Nuovo Mondo, é qui palpabile il dolore per l’abbandono e per le cose che potevano essere e non sono state.

UN PIATTO CHE DESTA CURIOSITA’

Nel mio lungo percorso di mercante d’arte antica, ho comprato e venduto moltissima maiolica “Vecchia Savona ” quando per vecchia s’intende maioliche del XVII e del XVIII secolo, periodo in cui le fornaci di Savona e di Albissola produssero maioliche tra le più belle ed apprezzate in tutta Europa; é necessario ricordare che il segreto della porcellana dal 1300 circa, cioè da quando Marco Polo portò a Venezia i primi manufatti orientali, fu noto solo nel primo decennio del 1700, prima di questa data la produzione della ceramica fu realizzata da artigiani che comunque riuscirono a produrre opere di grande bellezza e, talvolta, di grande interesse artistico. Il nome di maiolica deriva dal fatto che il maggior centro d’importazione di maioliche fu l’isola di Maiorca in Spagna, qui i manufatti ispano/moreschi con i loro decori “calligrafici “, per molto tempo furono un po’ imitati da tutti, poi ogni regione e città si specializzò nel produrre opere originali che con la loro peculiarità fecero immediatamente riconoscere il luogo di provenienza. La produzione di maioliche in Liguria fu concentrata ad Albissola ed a Savona in Vicus Figulorum ( oggi Borgo Fornaci ); si sono trovate prove che anche a Genova nella Via Giulia ( attuale via XX Settembre ) ci furono fornaci che produssero maioliche, tuttavia la grossa produzione arrivò dalla Liguria di ponente. Come detto in un altro mio articolo, i lavoratori che si dedicarono alla fabbricazione delle stoviglie vennero chiamati ” figuli” e la loro ” arte ” venne definita “sottile “, per distinguerli dai fabbricanti di mattoni “arte grossa ” che vennero chiamati “maoneri ” . Veniamo dunque a parlare di questo piatto decorato in blu su fondo “berettino” (celeste), l’opera della fine del XVII secolo marchiata stemma, si rifà ad un episodio preso dalle “Metamorfosi ” di Ovidio, che vi narro in breve: il dio Pan, nato dall’amore tra il dio Ermes (il Mercurio dei Romani ) e la ninfa Penelope non aveva , diciamo così per usare un eufemismo, un aspetto accattivante, in parole povere in lingua genovese “o mettèiva anguscia ” aveva il corpo coperto di peli, due corna sulla testa, dalla bocca gli sporgevano due zanne giallastre ed aveva le gambe come due zampe di capra, in questo stato se ne andava per i boschi ed un giorno incontrò la ninfa Siringa, bastò solo uno sguardo e lui se ne innamorò perdutamente, lei al contrario, appena lo vide si diede ad una fuga disperata, ma una povera ninfa che può fare contro un semidio ? così quando Siringa si rese conto che non sarebbe riuscita a sfuggirgli, invocò Zeus ( il dio supremo ) di salvarla e il pietoso Zeus ( a cui piaceva scherzare ) trasformò la ninfa in un canneto, Pan lì per lì ci rimase male, ma poi fece buon viso a cattiva sorte , tagliò le canne le unì insieme e se ne fece uno strumento musicale, la “siringa ” appunto. Questa novella, nel piatto rappresentato, ha un finale diverso e meno drammatico, infatti ci mostra Pan che suona una tromba e Siringa un piffero, segno che, tutto sommato, un accordo si può sempre trovare senza scomodare Zeus.

SANTA MARIA DI CASTELLO

Molti anni or sono e più precisamente nell’alto medio evo, quando l’impero romano d’occidente era crollato sotto la spinta delle orde barbariche nel 476 dopo Cristo, a Genova c’erano due cattedrali, una invernale ed una estiva. Quella per l’estate fu costruita nel punto più protetto della città, il cosiddetto “castrum” e da questo mediò il suo nome Santa Maria di Castello. Questo tempio fu la prima chiesa genovese dedicata alla Madonna, le prime notizie della chiesa risalgono al VII secolo, ma di questa prima costruzione restano poche testimonianze, perché l’edificio venne ricostruito nel secolo XI e poi nel secolo XIII. La chiesa venne posta in cima alla collina rispetto alla città vera e propria la “civitas” che si estendeva ai suoi piedi, perché più difendibile, stante che, specialmente nella buona stagione, le scorrerie degli arabi erano all’ordine del giorno, a quel tempo non avevano bisogno di scafisti, di O.N.G. ne di Medici senza Frontiere …arrivavano con le loro veloci feluche mettendo a ferro e fuoco le città, depredando e riducendo allo stato di schiavitù la popolazione inerme. All’esterno questo tempio non entusiasma più di tanto, dato che il restauro ottocentesco della facciata, a mio avviso, non le rende merito, ma all’interno é un vero e proprio scrigno di tesori e di sorprese quali ad esempio il crocifisso sagomato a ipsilon, che per tradizione si dice sia stato portato dalla Terra Santa al tempo delle crociate. Questo crocifisso fu così venerato che venne anche affrescato sulle pareti del convento adiacente alla chiesa rivolte verso il mare, cosicché ogni marinaio genovese in partenza ne percepiva la benedizione.

IL PRINCIPE DEI COMO’ DEL ‘700

In Italia nel XVIII secolo, a differenza dei grandi stati europei quali la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna, ci furono un gran numero di potentati e di staterelli che da una parte diedero la possibilità ai nemici d’oltralpe di sfruttare questa divisione tra gli italiani invadendoci a loro piacimento, d’altra parte però si svilupparono nelle regioni stili diversi nella moda e nell’ebanisteria molto interessanti che contribuirono a contraddistinguere ed alle volte enfatizzare la capacità e la bravura di artisti, scultori ed ebanisti; ad esempio in Liguria ed a Genova in particolare, prese campo uno stile particolarissimo il cosiddetto “barocchetto genovese ” che ispirandosi al Luigi XV francese, creò mobili tanto particolari da essere apprezzati ed amati in tutta Europa. I nostri ” bancalari “, così venivano chiamati i costruttori di mobili a Genova , dalla metà del 1700 e sino al 1770 circa realizzarono mobili stupendi mantenendo sempre la stessa impostazione contraddistinta da un’eleganza morbida, sinuosa ed estremamente raffinata tra i quali il cassettone o comò che dir si voglia, che é forse il mobile più caratteristico perché da questo derivarono i comodini, gli angolari, le ribalte ed i trumeaux.

Il comò genovese di questo periodo è caratterizzato da sostegni slanciati e calzati in eleganti zoccoli in bronzo cesellato e dorato che si raccordano con un unico movimento al centro del mobile detto “pancetta “, le catene non sono mai a vista, i montanti sono mossi e formano un movimento unico ed omogeneo rispetto a quello delle gambe formando inoltre la classica aletta elegante e sinuosa che forma un tutt’uno con il fronte del mobile mosso ad arco di cupido, anche i fianchi sono mossi così come il piano del mobile che seguendo sempre l’andamento del fronte del cassettone può essere di legno o di marmo ed in quel caso avrà uno spessore di circa 2,7 cm., una curiosità da evidenziare: alle volte il costo del piano in marmo, se pregiato come quello mostrato nella fotografia che é un broccatello di Spagna, superava quasi il costo del mobile, il fronte era a due cassetti, dei quali quello verso il basso aveva incorporato il grembiule, più uno o due tiretti sotto il piano. Le ferramenta erano in bronzo cesellato e dorato al mercurio, processo che consisteva nel bagnare uniformemente l’oggetto da dorare con acido nitrico, poi veniva preparato un composto oro/ mercurio con cui spruzzare l’oggetto ( rigorosamente solo nelle parti visibili ) ed infine l’oggetto veniva posto in una fornace, ad alta temperatura il mercurio evaporava e l’oro restava applicato indelebilmente alla superficie, era un processo pericoloso perché liberava sostanze altamente tossiche, corrosive ed inquinanti, deleterio per chi nel ‘700 lo faceva, considerando anche le scarse protezioni che venivano usate in quell’epoca.

Concludendo il comò aveva una struttura in legno povero lastronata in legni esotici quali il palissandro e il prezioso bois de rose con cui venivano realizzate le filettature ed i tipici cuori che solitamente creavano un motivo a quadrifoglio.

Un ringraziamento al mio amico Alberto Capozzi per avermi consentito di fotografare il comò mostrato nel mio articolo.

LA MALEDIZIONE D’UNA POVERA STREGA

Nel XVII° secolo il centro storico di Genova pullulava di mendicanti, nullafacenti provenienti dai sobborghi della città, invalidi per ragioni dovute alle guerre della Repubblica, malfattori e meretrici che dalle pendici del monte Albano ( l’attuale via della Maddalena ) esercitavano il mestiere più antico del mondo, oltre che signori che si facevano trasportare in portantina dai loro servitori ( le carrozze non erano adatte dato che i vicoli erano angusti e non ne consentivano il passaggio ) .Tra tutta questa variegata umanità viveva Cattarina Manola soprannominata ” Cagna Corsa ” forse per le sue origini. Cattarina mendicava dalla mattina alla sera e nel chiedere l’elemosina era piuttosto insistente, inoltre, se veniva scacciata, lanciava improperi e maledizioni anche dirette ai bambini, ora dovete sapere che nel 1600 la mortalità infantile era piuttosto elevata e cominciò a circolare la calunnia che fosse Cattarina, con le sue maledizioni, ad aver provocato la morte di alcuni bambini, i genitori inferociti la denunciarono quale ” strega “alle pubbliche autorità, la povera donna fu arrestata e trascinata dagli armigeri nel palazzetto criminale che era situato in via Tommaso Reggio, qui venne, come d’uso, coscienziosamente torturata e per porre fine ai tormenti Cattarina confessò d’essere una discepola del demonio, quindi, dopo un processo sommario, venne portata in piazza Banchi dove fu eretta una catasta di legna e bruciata viva tra i dileggi e gli insulti della popolazione intervenuta ad assistere al terribile spettacolo. Nella memoria popolare si racconta che, prima di morire, Cattarina, raccogliendo le ultime forze che le rimanevano, urlò agli astanti un’ultima terribile maledizione e che la pietra del selciato della piazza dove sarebbe morta sarebbe rimasta nera per sempre, pare che ancor oggi sia visibile, era l’anno del Signore 1630. Qualche anno dopo, nel 1656, scoppiò a Genova una terribile epidemia di peste bubbonica che uccise il 70 per cento della popolazione al tempo stimata in 100.000 anime. Non sarà stata certamente la maledizione di Cattarina ad aver portato la peste a Genova, sicuramente però é un fatto singolare che fa riflettere.

PRA’ CON L’APOSTROFO SULLA A

Sabbo a Camoggi dumenega a Pra’….. così finisce ogni strofa del canto popolare ligure “Olidin olidin olidena” , Pra’ é un quartiere genovese posto a ponente, il suo nome deriva da Prata Veituriorum, ( prati dei Venturii), i Venturi furono un’antica popolazione ligure che viveva in un’area posta tra il torrente Polcevera ed Arenzano prima della conquista romana; Pra’, essendo un abbreviazione della parola prati si scrive con l’apostrofo e non con l’accento sulla A. Questo quartiere nel passato fu sede di cantieri navali specializzati nella costruzione di brigantini, il che comportava l’esistenza di un importante indotto come per esempio quello per la fabbricazione delle corde e quello dei bozzelli, ancor oggi esiste la via dei Bozzellari e via dei Cordanieri , queste attività finirono con l’estensione verso ponente del porto di Genova. Il micro-clima particolarmente asciutto e mite di questo quartiere ha, sin da tempi remoti, favorito le culture agricole e tra queste la più conosciuta é quella del “basilico”, principale ingrediente per il “pesto genovese “. All’inizio del XIX secolo fu anche un rinomato centro balneare, ma, negli anni 70 del secolo scorso, il comune di Genova decise di costruire un porto container sul suo litorale, i lavori si protrassero per molti, molti anni devastando il territorio e creando enormi disagi alla popolazione praina, disagi per usare un eufemismo, solo la terrificante alluvione del 1993 convinse il comune di Genova a cancellare una parte del progetto iniziale che prevedeva un terrazzamento completo del litorale, soffocando definitivamente nel cemento armato questo angolo di costa, fu invece creato un braccio di mare posto tra l’abitato ed il porto, il cosiddetto “canale di calma “, la fascia di rispetto ed anche il campo per le regate di canottaggio, è singolare affermare che, alle volte, anche da un evento catastrofico possa nascere qualcosa di buono.

TRENETTE AL PESTO

Il pesto genovese é un condimento per la pasta asciutta e non solo tipico della Liguria, il nome deriva dal fatto che le foglioline di basilico ( originario di Pra’ se é possibile ) vengono pestate in un mortaio di marmo insieme al sale grosso, ai pinoli, ad uno spicchio d’aglio, al parmigiano reggiano, un po’ di formaggio sardo ( io non ce lo metto ) ed una goccia d’olio extra vergine d’oliva. Le origini del “pesto ” si perdono nella notte dei tempi sebbene la prima ricetta risalga solamente alla seconda metà del XIX secolo, secondo la tradizione, il piatto più celebrato é quello di condirci le trenette, una sorta di pasta simile ad uno spaghetto schiacciato di medio spessore, il toponimo deriva da ” trenna ” che in dialetto significa stringa ed ad osservarle attentamente le trenette sembrano proprio delle stringhe di media lunghezza. Le trenette con il pesto sono senz’altro il piatto della cucina ligure più conosciuto nel mondo e si servono accompagnandole a patate e fagiolini bolliti cotti a parte che vengono amalgamati con il pesto al momento in cui si scola la pasta. Concludendo, vi scrivo una poesia di Aldo Acquarone presa dal suo volume ” I Sonetti ” in cui si celebra questo condimento.

O PESTO

Pe’ primma cosa mèttite o scosà./piggia do baxaicò fresco e noello,/ un spigo d’àggio, di pigneu, da sà/

do parmixàn grattòu proprio de quello/ e caccia tutto quanto in to mortà./ Cantando ‘na cansòn o ‘n ritornello pesta e remèscia sensa fà schittà/ travagiàndo de gòmio e de pestello./Quando o l’é tutto unio comme ‘na pasta/ agguanta un fiasco d’ euio do ciù bon/ e remesciàndo allunga quanto basta./Ed ecco o pesto profumòu da mette/ in ta pugnatta insemme ao minestròn/ o pe condì un monte de trenette.

traduzione per “I Foresti ” ( non genovesi )

IL PESTO

Per prima cosa mettiti il grembiule/ prendi il basilico fresco e novello/ uno spicchio d’aglio, pinoli, sale, parmigiano grattuggiato proprio di quello/ e butta tutto quanto dentro il mortaio/ Cantando una canzone o un ritornello pesta e rimescola senza fare schizzare/lavorando di gomito e di pestello/ Quando é tutto amalgamato come una pasta/ acchiappa un fiasco d’olio del più buono/ e mescolando allunga quanto basta /ed ecco il pesto profumato da mettere/ nella pentola insieme al minestrone,/ o per condire una montagna di trenette.

QUINTO AL MARE

Quinto al mare é un quartiere residenziale di Genova posto tra il mare e le pendici del monte Moro, Il toponimo deriva dal fatto che é posto al quinto miglio dalla città di Genova lungo l’antica strada romana che va a levante. Anticamente vi era qui una fortezza eretta dagli abitanti del luogo per far fronte alle numerose scorrerie dei saraceni, che, partendo dalla Corsica con le loro feluche, attaccavano i paesi del genovesato seminando morte e distruzione. Nei pressi di questa fortezza sul finire del XIV secolo si scontrarono i Fieschi con i loro alleati del partito Guelfo con gli Adorno che parteggiavano per i Ghibellini, suonandosele di santa ragione, in quell’occasione i Fieschi ebbero la meglio, riuscirono a penetrare nella fortezza trucidando senza pietà tutti coloro che trovarono sulla loro strada. Il fortilizio fu diroccato dal bombardamento della flotta inglese nel 1746 e distrutto nel successivo bombardamento del 1814, al suo posto fu eretta, alla metà del XIX secolo, la cosiddetta “Casa dei Capitani “. A Quinto, da sempre noto come borgo marinaro, molti dei suoi concittadini furono comandanti di galea o ” Buonavoglia ” (*) ai tempi della Serenissima Repubblica . Nel XIX secolo si trasformò in centro armatoriale per la costruzione dei velieri mercantili atti alla navigazione costiera, i ” Leudi ” così ben rappresentati al “Galata ” il museo del Mare di Genova. Oggi a Quinto vi sono diversi ristoranti e trattorie tipiche dove poter gustare le specialità della cucina ligure.

(*) i ” Buonavoglia ” erano liberi cittadini che si arruolavano come marinai ai remi delle galee genovesi a tempo determinato e ai quali spettava una paga che variava a seconda della lunghezza e della pericolosità del viaggio.

LA SCOGLIERA DI MIRAMARE

Non so se succede anche a voi, ma alle volte si é tanto abituati alla bellezza che non ci si fa più caso, sempre presi dai nostri pensieri, dalle preoccupazioni, dal lavoro che non ci gratifica pienamente, dalla famiglia, dai cellulari che non smettono di trasmetterci messaggi di amici e di una pubblicità invadente e persistente che ci manda fuori dai gangheri, a me é capitato di percorrere la passeggiata sul mare di Nervi intitolata ad Anita Garibaldi andando verso il porticciolo di questo ultimo baluardo di Genova a levante e di guardare per la prima volta con attenzione la scogliera di Miramare, un sito geologico strutturale e geomorfologico di grande interesse che comprende una falesia attiva alta una ventina di metri circa in cui affiorano le torbiti calcareo- marnose della formazione del monte Antola in strati massicci che si presentano fittamente ripiegati, giacenti mediamente in posizione sub-verticale. Questa meraviglia della natura si formò da sedimenti formatisi nel periodo del Cretaceo superiore circa 80 /70 milioni d’anni fa come conseguenza di imponenti movimenti tellurici sottomarini, sulle parti degli strati superiori sono frequentemente visibili tracce di fossili di quel periodo. Guardando stupefatto questa scogliera ho capito, una volta di più, che ho avuto fortuna, perché ho potuto vivere quasi tutta la mia vita in un posto che solo a guardarlo ti da gioia.

UN CANTO POPOLARE IMMORTALATO DA BRUNO LAUZI

SE TI EU NAVEGA’ ( SE VUOI NAVIGARE )

Se ti eu navegà u gheu di buèi trinchetti / se ti eu fà l’amu’ u gheu di buei suenetti/

la ‘n ta Marina u ghe fa bello stà/se vene i bastimenti chi van a navegà.

Se ti eu navegà ‘te gheu do mà e do vento; coscì pe fà l’amò te gheu un chéu contento.

Véggo u me amò ch’o vegne in sà cantando/con i euggi verso o cé, ch’o cheu a suspirando.

Suspira ben me chèu perché raxion ti n’é/ a bella a se marìa e ti tì cianzeré.

traduzione per i foresti ( per i non genovesi )

Se vuoi navigare ci vogliono buoni trinchetti/ Se vuoi fare l’amore ci vogliono dei bei giovanotti,

la vicino al mare è bello stare se vengono i bastimenti che vanno a navigare.

Se vuoi navigare ti occorrono mare e vento; Così per far l’amore ti occorre un cuor contento.

Vedo il mio amore che viene verso me cantando/con gli occhi rivolti al cielo con il cuore sospirando

Sospira bene, mio cuore , perché hai ragione/ la bella si sposa e tu ne piangerai.

Nella foto un due alberi ancorato alla Marina di Sestri Ponente (Genova )

GIO RAFFAELE BADARACCO PITTORE TALENTUOSO

Nelle sue “Vite de’ pittori , scultori ed architetti genovesi” del Soprani stampato nel 1674 si legge che il pittore genovese Giuseppe Badaracco ( 1588-1657 ) ebbe quattro figli di cui due furono pittori, uno a Roma e l’altro a Genova, “…..quest’ultimo ha nome di Gio Raffaello, giovine, che per la bell’indole fua ci fa fperare un’ottima riuscita, e nell’intraprendere la profeffione , e in ogni altro genere di virtù”. Il Nostro, allievo prima di Andrea Ansaldo e poi di Bernardo Strozzi, ricevette probabilmente i primi rudimenti sulla pittura dal padre che però morì quando lui aveva solo 9 anni, essendo nato a Genova nel 1645 dovette faticare parecchio per affermarsi come acclarato artista in una città dove la bottega di “Piola” la faceva da padrone, sia per le opere laiche come per quelle a tema religioso, tanto che Gio Raffaele , per far emergere il proprio talento, dovette andare a Roma, dove nella bottega del Maratta e di Pietro da Cortona raggiunse la sua maturità artistica, il “cortonismo” resta indubbiamente una componente del suo stile che non abbandonerà mai più e che lo contraddistingue dallo stile dei suoi contemporanei genovesi. Quello di Gio Raffaele é uno stile barocco elegante e non chiassoso secondo la Orlando , sa essere didascalico quando serve, ma sa anche dar prova di un brio pittorico sostenuto da un solido mestiere. Il dipinto rappresentato nella fotografia rappresentante un’ Estasi di santa Teresa d’Avila, olio su tela avente dimensioni di cm. 145 x c. 107,5 fu dipinto probabilmente intorno al 1685 quando Badaracco fu incaricato di realizzare il ciclo dei dipinti dell’oratorio di Coronata. L’opera, facente parte d’una prestigiosa collezione privata genovese, é in vendita, se interessati all’acquisto potete andarlo a vedere a Genova nell’ atelier di restauro di Nino Silvestri in Santa Maria in via Lata. Mauro Silvio Burlando

UNA VILLA CHIAMATA PARADISO

Ho già scritto del quartiere genovese d’ Albaro, il cui toponimo deriva dal fatto che essendo posto ad est rispetto al centro storico di Genova, gode per primo delle luci dell’ “alba” ; alcuni storici come il Poggi ipotizzarono invece che il nome in lingua genovese Arbà derivavi dalla parola “raibà ” che significa insenatura, poi italianizzato in Albaro, per altri ancora il sito avrebbe preso il nome dalla famiglia degli Albaro provenienti dalla Riviera di Ponente, noti sin dal secolo XI, ma, a mio avviso, é più credibile che questi abbiano preso il loro nome da questo territorio e non viceversa. Sino alla prima metà del XIX secolo non esisteva una strada attraversante il quartiere d’Albaro che era scarsamente popolato sebbene impreziosito da stupende ville fatte costruire tra il XVI ed il XVIII secolo da potenti famiglie facenti parte della oligarchia genovese, chiamarle ville mi pare riduttivo, siamo di fronte a splendidi palazzi di villeggiatura molti dei quali ancora esistenti. Tra queste avite dimore si distingue la villa Saluzzo/Bombrini detta ” Il Paradiso ” che con l’edificio costruito sul retro detto ” Paradisetto ” costituisce uno dei più fulgidi esempi di architettura tardo manierista. Artefice di questa meraviglia fu Andrea Ceresola detto ” Il Vannone ” (1575 -1627 ) che la realizzò nell’ultimo decennio del XVI secolo, fu chiamata “Paradiso”, non tanto per la splendida costruzione, ma per i giardini che la circondavano immortalati dal celeberrimo pittore Alessandro Magnasco ( Genova 1667 – 1749 ) nel suo dipinto ” trattenimento in un giardino d’Albaro ” realizzato nel 1735 e facente parte delle collezioni del museo di Palazzo Bianco a Genova in via Garibaldi.

Una Resurrezione per gli Armeni

A Genova, superata piazza Manin ed imboccato corso Armellini, ad un certo punto si arriva alla chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, fondata nel 1308 da monaci provenienti dalla Montagna Nera in Armenia da cui erano fuggiti per evitare d’essere uccisi dai turchi ottomani. Questa chiesa custodisce da secoli il cosiddetto ” Santo Mandillo ” di cui ho raccontato la storia in un post da me scritto parecchi anni or sono. Questo tempio si riconosce per il suo basso campanile e non per altro, avendo la sua facciata nascosta da una costruzione del XIX secolo che la fa sembrare una casa come tante altre. L’interno, ad un’unica navata, é impreziosito da importanti dipinti tra i quali una tavola realizzata ad olio dal pittore Luca Cambiaso da Moneglia ( Moneglia 1527 – El Escorial 1585 ) che raffigura la Resurrezione di Cristo. Con questa bella immagine auguro una buona Pasqua a tutti voi. Mauro Silvio Burlando

IL POGGIO DELLA GIOVINE ITALIA

Ai miei quattro lettori, che mi seguono da tanti anni con affetto, vorrei raccontare una storia che comincia nei primi anni 50 del secolo scorso, essendo orfano di padre, vivevo con la nonna materna e con mia madre che per per sbarcare il lunario, come talvolta si dice, lavorava dalla mattina alla sera e ben poco tempo poteva dedicarmi, ma la domenica, nelle settimane antecedenti le festività natalizie, mio zio Ettore mi accompagnava ai cosiddetti “Baracconi ” un luna Park che sino a poco tempo fa veniva montato dai giostrai alla foce del Bisagno, proprio di fronte al mare, prima però, per tradizione, mi portava al “Poggio della Giovine Italia ” un giardino di modeste proporzioni ( circa 1500 mq) originariamente dedicato ai martiri del nostro risorgimento mi pare nel 1898, sopraelevato rispetto alle strade limitrofe consente di godere d’ una bellissima vista panoramica. Lì in mezzo ai palmeti é posto un basamento d’ un monumento che a quel tempo non c’era più e mio zio si divertiva a mettermici sopra ed a fotografarmi in auliche pose. Sono passati tanti anni da quei giorni e un po’ per evitare malinconie ed anche perché avevo timore che il presente avrebbe rovinato il ricordo che portavo dentro me di questo posto magico non ci sono più andato, se non che, pochi giorni fa, arrivato alla fine di via Corsica nel quartiere di Carignano, come in una nota canzone del Festival di San Remo, le mie scarpe mi hanno condotto lì. l’area era interdetta al pubblico perché tutta sottosopra, c’erano ancora le palme e sul basamento del monumento era stato posto un fascio littorio sostenente un elmetto d’un soldato della prima guerra mondiale piantato sopra una pietra del monte Grappa dove avvenne una delle più cruente battaglie contro gli austriaci nel 1918, c’ é anche una targa che la ricorda posta nella ricorrenza del 150° anniversario dell’unità d’ Italia, tutto intorno ruspe, autocarri e transenne, segno, mi auguro d’un restauro che in un prossimo futuro dia a questo piccolo pezzo di paradiso la magia che aveva tanti anni fa.,

LA LEGGENDA DEL MELOGRANO FATATO

Il civico n. 2 di Campetto costruito nel 1586 su commissione del nobile Ottavio Imperiale fu poi acquistato dai marchesi Sauli ed a metà del ‘600 dai De Mari e poi dai Casareto, ma al di là di tutti questi passaggi di proprietà che hanno lasciato preziose testimonianze all’interno del palazzo, già nel XVII secolo l’edificio fu conosciuto come il ” Palazzo del Melograno ” ed ancor più nota fu la sua profezia. Circa 400 anni or sono un piccolo seme di melograno si posò fra il frontone triangolare del portone d’ingresso del palazzo ed il balcone del primo piano, lì , incredibilmente, trovò un ambiente favorevole e crebbe anno dopo anno sino a trasformarsi in un alberello. Nel 2024 quel melograno esiste ancora, ha sfidato il tempo, l’incuria degli uomini, la decadenza della città che da ” Superba “, come la definì il Petrarca, fu assoggettata al regno del Piemonte e Sardegna e più tardi al Regno d’Italia senza che fosse fatto alcun plebiscito, sopravvisse anche a due guerre mondiali, nessuno ha mai osato estirpare quella pianta, perché una profezia tramandata attraverso i secoli afferma : ” sinché vivrà il melograno Genova potrà continuare a crescere e prosperare, ma se la pianta dovesse morire, anche la città cesserà d’esistere.

IL BATTISTERO DI SAN GIOVANNI IL VECCHIO

Nella stupenda cattedrale di San Lorenzo a Genova, la cui facciata é stata recentemente restaurata, è il battistero detto di san Giovanni “il Vecchio”, si chiama così perché nel ‘500 venne edificata la nuova cappella di san Giovanni Battista nella navata sinistra della cattedrale e per questo chiamata san Giovanni “il Nuovo “. Circondata da dipinti di insigni pittori quali Luca Cambiaso, Domenico Fiasella, i Semino ed il Baiardo é posta una grande vasca battesimale ottagonale in marmo bianco realizzata da un ignoto scultore nel tardo XV° secolo, come tutte le vasche battesimali tardo-medioevali é concepita ad immersione, “Battesimo ” deriva dalla parola greca “baptisma” che significa ” immersione ” ed anticamente il sacramento veniva celebrato con la vera e propria immersione del battezzando in una vasca d’acqua, usanza che i cristiani “Ortodossi” portano avanti anche al giorno d’oggi.

FRITA’ DE SUCCHIN A ZENEIZE

Quando parliamo di pietanze nella cucina ligure dobbiamo sempre e comunque ispirarci alla mentalità diciamo parsimoniosa dei genovesi, per esempio alla fine dell’inverno soprattutto nelle campagne alle spalle della città di Genova, si festeggiava l’inizio del ciclo riproduttivo delle galline, dato che le uova erano l’ingrediente principale per fare preparazioni semplici e veloci come per esempio le frittate. Nel XIX secolo, dato che gli orti all’inizio della primavera non producevano ancora verdure adatte per fare le frittate, si ricorreva ad erbe selvatiche come la vitalba e le ortiche, a stagione più avanzata si poteva fare la frità de succhin ( la frittata di zucchini ) che ha il vantaggio d’esser buona sia calda che fredda e quindi, se avanzata, si può consumare anche il giorno dopo la sua cottura, che può essere fatta in padella ( io la preferisco così) o anche al forno. Paolo Spadoni nel suo “Lettere odeporiche sulle montagne Ligustiche ” scritto a Bologna nel1793 scrive che al suo arrivo a Montobbio ( Montoggio ) fu accolto dagli abitanti, dall’Arciprete e dai suoi domestici con una grossa frittata e con vin generoso….quindi si può supporre che la frittata era considerata un cibo apprezzatissimo anche per dare il benvenuto a personalità d’alto ceto.(*)

(°) vedi la cucina tradizionale di Enrichetta Trucco a cura di Emanuela Profumo

LA TORRE SU VIGNETI CHE NON SONO PIU’

La basilica di Nostra Signora delle Vigne ha una storia che si perde nella notte dei tempi, era chiamata così perché in sito erano numerosi vigneti che letteralmente circondavano il tempio sacro, una prima cappella risalirebbe al VI secolo dopo Cristo, mentre, secondo Jacopo da Varagine (Varazze) analista e vescovo della città nel XIII secolo, la chiesa attuale risalirebbe all’anno 991. La maestosa torre nolare in stile romanico-gotico posta a cavallo tra il chiostro ed i muri perimetrali della chiesa sarebbe l’unica parte conservata intatta nel tempo della sua ricostruzione risalente alla metà del XII secolo. La torre ha una base quadrata culminante con una cuspide ottagonale con i caratteristici quattro pinnacoli agli angoli presenti in altre torri della nostra città, la costruzione svetta verso il cielo alzandosi per ben 56 metri dal livello stradale, la parte alta ingentilita da coppie di bifore e di pentafore. Una sua caratteristica peculiare é che per consentire il transito stradale, sin dall’inizio fu concepita con la sua base aperta che, sebbene poggiante su massicci muri di pietra squadrata, la fanno sembrare sospesa.

OCHE E EINSTEIN UN SINGOLARE SITO GENOVESE

Ai turisti che visitano Genova può capitare che, andando a vedere la splendida basilica di Santa Maria delle Vigne, attraversino una piccola piazza triangolare senza nessuna attrattiva, il nome ” piazza delle Oche” deriva dal fatto che in questo sito anticamente c’era un cortile dove liberamente scorrazzavano animali domestici e soprattutto oche, probabilmente di proprietà della famiglia dei Vivaldi che qui avevano numerosi palazzi; il luogo non ebbe nella storia della nostra citta alcuna rilevanza se non quella d’ospitare nel XIX secolo il signor Jacob Kock mercante tedesco di grano all’ingrosso, che fu zio del celeberrimo Albert Einstein il quale da Pavia, dove s’erano trasferiti i suoi genitori, andò a trovare lo zio a Genova, giungendovi a piedi attraverso la Val Trebbia. Albert arrivò a Genova nel 1895, aveva solo 16 anni , ma la sua vacanza genovese gli rimase per sempre nel cuore se dopo molti anni scrisse ad una sua amica genovese: “…ma Genova adesso, guardando il mondo con un certo distacco, quella vacanza non la dimentico…” Recentemente, dopo un iter burocratico infinito, é stata posta una lapide per ricordare che in questo sito non solo ci furono oche ma, sebbene solo per qualche mese ci dimorò anche uno dei più grandi geni della fisica.

STORIA D’UN CROCIFISSO ERRANTE

Sono un appassionato d’arte antica ed in questa veste ho frequentato, da che ne ho memoria, chiese, musei, mostre d’arte e restauratori. Molti anni or sono, entrando nella chiesa di Santa Maria in via Lata, sita sulla collina di Carignano a Genova, già tempio gentilizio dei nobili Fieschi, edificata nel 1340 vicino al loro splendido palazzo che venne distrutto dopo il fallimento della congiura da loro ordita contro i Doria ed oggi sconsacrata ed adibita ad atelier di restauro di Nino Silvestri, lì, dicevo, incontrai per la prima volta questo Crocifisso, che più per le maestose proporzioni mi colpì per il grave stato di conservazione in cui versava, Silvestri mi disse che da molti anni lo aveva in deposito in attesa che le autorità competenti gli dessero il via per procedere al restauro che doveva essere filologico, non teso quindi ad intervenire sulle innumerevoli lacune e mancanze dell’opera ma a indagare su quale fosse la poetica originale che l’aveva generato, eliminando i rifacimenti pittorici fatti a posteriori per sanare i danni fatti dal tempo e dagli interventi di restauro del XIX secolo ancora più dannosi. La grande Croce misura cm. 312 x cm. 282 x cm. 15,5, dipinta a tempera su una tavola di legno di pioppo, é priva della cimasa, dei terminali e della base, la critica moderna lo ha attribuito ad un maestro toscano, forse senese, attivo tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, il fondo oro dello sfondo, realizzato  con motivi fitomorfi e zoomorfi che si alternano entro piccoli tondi accostati, ricorda le pregiate stoffe lucchesi, mentre l’anatomia del Cristo con l’appena accennata torsione del corpo ci ricordano prepotentemente le opere ducentesche toscane. Originariamente il dipinto era collocato nell’abside della primitiva chiesa romanica di Santa Maria delle Vigne, in seguito venne trasportato nel chiostro dei Canonici, nel 1893 esposto in una mostra a Palazzo Bianco dove rimase sino al 1936, poi trasferito nell’allora chiesa di sant’Agostino e sistemato a parete a capocroce. Nel 1943, per salvarlo dai bombardamenti degli alleati che recarono enormi danni alle chiese del sestiere di Castello, fu messo al sicuro nel paesino di Voltaggio ed alla fine del conflitto ritornò a Genova nella chiesa di sant’Agostino che però, sconsacrata, era stata trasformata in deposito. L’opera fu consegnata alla Soprintendenza nel 1954 che la lasciò lì sino al 2008, dopo di che fu consegnata alla bottega del Silvestri per il restauro. Finalmente nel 2019 la grande Croce Major, dopo più d’un secolo, ritornò nella chiesa di Santa Maria delle Vigne da dove era partita . Alleluia!

Così si presentava il crocifisso prima del restauro fatto da Nino Silvestri ed i suoi collaboratori

NATALE A GENOVA

Come in tante città d’Italia, anche a Genova la festività del Natale é molto sentita sin dai tempi più remoti, le cronache ci raccontano di doni fatti non solo dai ricchi, ma anche dalle classi meno abbienti nei confronti dei loro congiunti. In questa festività la pianta del’ alloro assume particolare importanza, un rametto d’alloro era conficcato in cima al “pandolce”, tipico dolce della santa ricorrenza, per invocare la buona sorte, il membro più giovane della famiglia doveva toglierlo prima del taglio del pandolce, mentre il più anziano doveva prendere la prima fetta e metterla da parte per poi regalarla al primo mendico che avesse bussato alla porta; bei tempi antichi…. oggi, con quello che si legge quotidianamente sui giornali, se qualcuno ci suona insistentemente il campanello di notte, chiamiamo subito i carabinieri. Ritornando al nostro “alloro” i rami venivano esposti fuori dalle botteghe dei “Besagnini ” ( venditori di frutta e verdura) consuetudine considerata da tutti come l’inizio del periodo della festa, ai tempi della Serenissima Repubblica di Genova ( ma anche ai nostri giorni ) veniva posto innanzi al palazzo Ducale un tronco di alloro simbolo di pace e prosperità, il Doge in persona ( oggi lo fa il sindaco ) usciva dall’avito palazzo salutando la folla festante e dopo averlo cosparso di vino, gli dava fuoco, questa cerimonia detta “Confuoco ” si ripete da tempi remotissimi, documentata dal XIV secolo risale probabilmente ad un periodo molto più antico. Desidero concludere questo breve articolo con una vecchia filastrocca genovese : Viva o Natale/ viva o vin bon/ viva o pandoce/ viva o torron/tutto o l’é bon! E buone feste a tutti i miei lettori.  Cordialmente  Mauro Silvio Burlando

Nella foto Piazza Colombo fotografata di notte con le luminarie di Natale.

San Siro il precursore dei disinfestatori

Girovagando per il centro storico di Genova e percorrendo il lungo caruggio che da via San Lorenzo arriva a piazza Banchi, ad un certo punto passerete sotto un grande archivolto detto della porta di san Pietro perché da lì, nel X secolo, si accedeva alla città da ponente, una porta ora non più esistente, giacché nel XII secolo fu demolita quando furono erette le nuove mura dette del “Barbarossa” che potenziarono le difese della città, stante che l’imperatore aveva deciso di sterminare tutti i genovesi uomini, donne, vecchi e bambini poiché s’erano rifiutati di pagargli i tributi. Proprio qui, su un muro, ignorato dai più, c’é un’antico basso rilievo dì epoca medioevale che ritrae al centro il mitico san Siro di Genova con ai lati gli stemmi scalpellati di due famiglie nobili genovesi sormontati da due elmi. Il san Siro vescovo di Genova vissuto nel IV secolo dopo Cristo é ricordato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine ( attuale Varazze ) per aver sconfitto un mostro detto ” Basilisco ” che viveva in un pozzo inquinando le sue acque e con il suo fiato puzzolente ammorbava l’aria di Genova. Siro, dopo essersi ritirato in preghiera, si recò al pozzo, vi calò dentro un grosso secchio, ordinò alla bestiaccia d’entrarci dentro e, tiratolo su gli ordinò di buttarsi a mare, cosa che l’orrido animale fece immediatamente, penso non solo per obbedire all’ordine del santo vescovo, ma anche perché vivere in un pozzo non deve esser stato il massimo della goduria per lui. Ovviamente questo mitico animale si immagina volesse rappresentare allegoricamente l’eresia ariana che il nostro Siro combatté strenuamente. Il Basilisco, per chi non lo sapesse, era citato sin da tempi remotissimi come un mostriciattolo velenoso, mezzo serpente e mezzo gallo con ali di pipistrello e con gli artigli d’un avvoltoio. Singolare il fatto che in questo antico basso rilievo, dove il bastone vescovile é visibile solo nella parte terminale superiore ed inferiore, San Siro venga rappresentato con la faccia scura, forse perché pur essendo nato a Molliciana ( attuale Molassana ) zona alle spalle di Genova dove le piene del torrente Bisagno rendevano il terreno fertile e molle, Siro é un nome che deriva da Siriaco cioè abitante della Siria e quindi africano.

UN CAPOLAVORO SEGRETO

A Genova, vicinissima alla centrale piazza Corvetto, c’ è una piccola chiesa dedicata a santa Marta che in qualche modo richiama un po’ il carattere dei genovesi, poverissima all’ esterno, è un vero e proprio scrigno di tesori al suo interno, uno dei più splendidi esempi dello stile rococò genovese. Questo tempio fu originariamente un monastero delle monache benedettine di clausura, le monache potevano assistere alla Celebrazione Eucaristica senza esser viste da nessuno dal loro inaccessibile matroneo posto in alto sopra il nartece. Ancora oggi a questo matroneo si accede da un appartamento sito al terzo piano di un anonimo edificio di piazza Corvetto vicino ad un negozio che vende piante e fiori, il parroco mi ha consentito di visitarlo, il luogo é suggestivo e carico di pathos, sarà stato per la luce soffusa ed una melodia a me sconosciuta suonata da un anonimo organista, ma quando alzai gli occhi al basso soffitto che mi sovrastava restai letteralmente a bocca aperta dall’ emozione, lì vidi uno splendido affresco rappresentante l’adorazione dei pastori a Gesù bambino realizzato dal pittore genovese Domenico Piola, ( Genova 1627 – 1703 ), uno degli artisti più rappresentativi della Genova barocca che lo realizzò nell’ ultimo quarto del XVII° secolo.

Camogli con i piedi nell’acqua

Camogli é un posto dove si torna sempre volentieri, tranne nei giorni festivi, quando la baraonda delle auto in cerca d’un improbabile parcheggio, ti mettono addosso un’ansia per la quale non vedi l’ora di andartene il più lontano possibile da lì. Molti anni or sono, accompagnai una mia amica belga a Camogli e quando uscimmo dallo stretto caruggio e sbucammo sulla passeggiata fronte mare, lei a bocca aperta cominciò a piangere dicendomi che mai aveva visto cosa più bella. Anche poeti come Nicolò Bacigalupo l’hanno celebrata scrivendo: “Camuggi, bella najade accuegà coi pé in te l’aigua e a testa sotto i pin che ombrezzan dal’ artua de Portofin a valle ti te spegi in ma , ricca e bella t’han reiso i brigantin che andavan da -o- to porto carega…..” Truduzione per i foresti ( non genovesi ) “Camogli bella Najade sdraiata con i piedi nell’acqua e la testa sotto i pini che ombreggiano dall’ altura di Portofino, a valle ti specchi in mare, ricca e bella t’hanno reso i brigantini che caricavano nel tuo porto…..” Camogli é ricordata anche nei canti popolari liguri dove uno dei più divertenti recita : ” Oulidin oulidin oulidena sabbo a Camoggi domenega a Zena , oulidin oulidin oulidà sabbo a Camoggi domenega a Prà.

Artemisia, il genio e la passione

Quotidianamente siamo ormai abituati a leggere su giornali di violenze, stupri ed omicidi perpetrati tra le mura domestiche, proprio tra quelle mura che invece dovrebbero garantire sicurezza e protezione. Singolare il fatto che quando si legge qualcosa di edificante, la notizia passa subito in secondo piano rispetto al fatto violento, al quale, non solo viene dato più risalto, ma quasi subito crea tra alcuni dei fruitori della notizia, desiderio di emulazione, allora pensiamo:” che tempi oscuri sono questi dell’inizio del terzo millennio”. Conoscendo un po’ la storia però ci si rende conto che anche nel passato le cose non giravano per il verso giusto, esempio lampante fu Artemisia Gentileschi violentata a soli 17 anni dal collega di lavoro e di bisbocce di suo padre Orazio, il pittore Agostino Tassi, che avrebbe dovuto insegnarle la “prospettiva”, essendo lei, l’unica tra i figli del Gentileschi, a voler diventare pittrice, invece abusò di lei approfittando d’ essersi trovato solo con la ragazza. Il Tassi cercò di evitare d’essere denunciato promettendo ad Artemisia e a suo padre Orazio di sposarla, ma dopo qualche mese i Gentileschi vennero a conoscenza che il Tassi era già sposato e con prole a carico, per cui venne denunciato, imprigionato a Tor di Nona e processato, e proprio durante il dibattimento, di fronte ai giudici, Artemisia senza paura ne vergogna, confermò quanto letto dal capo dei notai che con voce monocorde lesse quanto segue: ” quando fummo alla porta della camera lui mi spinse dentro e serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto….havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntatomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro che lo sentivo che m’incedeva forte e mi faceva gran male che per l’impedimento che mi teneva alla bocca non potevo gridare…E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli ….” Il Tassi, ovviamente, negò tutto, per cui il giudice ritenne opportuno, per conoscere la verità, ricorrere alla tortura, come era d’uso nel primo quarto del XVII secolo e quindi ordinò ad un aguzzino di sistemare le corde intorno alle dita e di stringerle ma non a lui ma a lei……sottoposta alla tortura detta della “Sibilla”, che consisteva nel legare delle cordicelle alle mani dito per dito, cordicelle che poi venivano strette sino a stritolare le falangi, la tortura cominciò, e mentre l’aguzzino girava lentamente il randello a cui erano collegate le corde che le straziavano le mani, Artemisia gridò guardando negli occhi il Tassi : ” E’ vero, E’ vero, E’ vero! ” e poi rivolgendosi a lui gli rinfacciò: ” …Questo è l’anello con cui mi sposi, questi sono i tuoi giuramenti !” il giudice interruppe la tortura che durò il tempo di un miserere. Artemisia barcollando stremata dal dolore si allontanò ed il Tassi venne riportato in galera dove per la verità restò per poco tempo. Lei diventerà un genio immortale, mentre lui verrà ricordato solo per quel’ atto di violenza nei confronti d’una ragazzina. Nel Palazzo Ducale di Genova è stata allestita una bella mostra dedicata a questa straordinaria pittrice visitabile dal 16 Novembre 2023 al 1 aprile 2024.

Nella foto il dipinto olio su tela realizzato da Artemisia a soli 17 anni raffigurante “Susanna ed i vecchioni” si dice che nelle fattezze del vecchio barbuto la pittrice abbia raffigurato suo padre mentre il personaggio più giovane sarebbe il Tassi.

Bibliografia : ” Artemisia ” di Alexandra Lapierre ed. Mondadori

Una Basilica forse nata per un bisticcio

La potente famiglia dei Sauli aveva l’abitudine di presenziare alla messa domenicale nella Chiesa dei Fieschi che avevano a Genova dimore sontuose e terreni sulla collina di Carignano, ora la tradizione ci tramanda che un giorno i Sauli, per un contrattempo, fossero in ritardo ed avessero mandato un valletto ai Fieschi chiedendo loro che la sacra funzione fosse posticipata e pare che i Fieschi risposero sdegnati che i Sauli, se volevano fare i loro comodi, si costruissero una chiesa apposta per loro. Non sappiamo se questa diceria corrisponda a verità, fatto sta che nel 1481 nel suo testamento, Baudinelli Sauli lasciò una cifra ingente per erigere una basilica dedicata alla Madonna Assunta che dal colle di Carignano potesse dominare tutta Genova. Quest’obbligo passò agli eredi che solo dopo molti anni iniziarono la costruzione della fabbrica ultimata solo nel XIX secolo, il cui costo superò la cifra astronomica per quei tempi di 100.000 scudi d’oro. Molti anni or sono lessi in un divertentissimo libro scritto da Michelangelo Dolcino che i genovesi, famosi per la loro parsimonia, guardando la facciata della basilica impreziosita dal gruppo statuario realizzato da Claudio David e terminato dallo Schiaffino, immaginarono una sacra conversazione piuttosto irriverente in cui San Pietro avrebbe detto volgendo gli occhi al cielo : ” Oh quante balle àn faeto i Sauli ” e San Paolo di rimando: ” No ò tanti cavelli in testa ” e Maria in mezzo a loro sembra dire con aria smarrita ” E mi cose ne posso? ”

L’Organo di Murta

Murta è un paesino posto su di una collina sul versante destro della Val Polvevera conosciuta oggi in tutto il mondo per la tragedia derivata dal crollo del ponte Morandi. Posto alle spalle di Genova, il suo toponimo deriva dalla pianta di mirto che evidentemente era molto comune in questi territori. Anticamente il paese era composto da un gruppo di casolari costruiti attorno alla chiesa dedicata a San Martino di Tours ed ad altre case sparse che si trovavano più a monte. Le prime notizie storiche su Murta risalgono al XII secolo quando la chiesa venne iscritta nel ” Registro della curia arcivescovile” di Genova me le origini di questo piccolo abitato sono molto più antiche, nel 1284 cittadini murtesi parteciparono alla battaglia della Meloria contro i pisani, ed a ricordo di quella vittoria, furono appese alla parete della chiesa due anelli dell’enorme catena che chiudeva l’ingresso di Porto Pisano e li rimasero per secoli sino a che, nel 1747, furono trafugati dai soldati austriaci che penetrati nella chiesa di san Martino, fecero man bassa di tutto quello che conteneva, si salvò la pala d’altare della metà del ‘600 di scuola fiamminga che raffigura san Martino ed il povero viandante, perché, fortunatamente, fu portata a Genova precedentemente. L’organo a canne é del 1882, é uno strumento a trasmissione meccanica realizzato dai fratelli Lingiardi, inserito in un contesto barocchetto, é una meraviglia da vedere e da ascoltare.

L’Inverno di Fabrizio De André

Sale la nebbia sui prati bianchi/come un cipresso nei camposanti/un campanile che non sembra vero/segna il confine tra la terra e il cielo./Ma tu che vai, ma tu rimani/vedrai la neve se ne andrà domani/rifioriranno le gioie passate/col vento caldo d’un’altra estate./ Anche a luce sembra morire/nell’ombra incerta d’un divenire/dove anche l’alba diventa sera/e i volti sembrano teschi di cera./Ma tu che vai, ma tu rimani/anche la neve morirà domani/l’amore ancora ci passerà vicino/nella stagione del biancospino./La terra stanca sotto la neve/dorme il silenzio d’un sonno greve/l’inverno raccoglie la sua fatica/di mille secoli, da un’alba antica/ma tu che stai ,perché rimani? Un’ altro inverno tornerà domani/cadrà altra neve a consolare i campi/cadrà altra neve sui camposanti.

nella foto : l’angelo custode si arrende alla morte, particolare d’una tomba monumentale del cimitero di Staglieno (Genova ) scolpita da Giuseppe Benetti ( Genova 1825-1914) nel 1878

I Giustiniani su una delle porte dell’ antica Voltri

Voltri, estrema propaggine a ponente della “Grande Genova” ebbe origini antiche, in epoca pre-romana fu capitale del gruppo etnico dei Veituri da cui probabilmente deriva il suo nome, gente bellicosa senza alcun dubbio se i romani chiamarono la città “Hasta Veitorum ” ( Lancia dei Veituri ) e poi, Vulturium dopo che l’ebbero conquistata. L’abitato originariamente era composto da case a due piani circondato da mura che la proteggevano dalle incursioni dei saraceni e dei pirati. Una delle porte della città e più precisamente la porta occidentale detta ” Cerusa” è ancora oggi visibile e sopra di essa fu murato un antico bassorilievo realizzato su una lastra d’ardesia ritrovata in un terreno all’inizio della via dei Giovi. Il bassorilievo ha alla sua sinistra la raffigurazione d’un agnello pasquale e sulla destra uno stemma araldico che mostra le mura merlate d’una città sormontate da tre torri delle quali la centrale é più alta e al di sopra un’aquila nascente. Probabilmente creduto in primis lo stemma dell’antica città di Voltri é invece lo stemma araldico della famiglia Giustiniani. I Giustiniani, potente famiglia genovese, formarono uno dei 28 “Alberghi ” della nostra città, in questo cosiddetto “Albergo ” erano aggregate famiglie che o per censo o per amicizia si unirono in sodalizio non solo per aiutarsi in determinate situazioni di pericolo, ma anche per stringere accordi economici e talvolta affettivi imparentandosi gli uni con gli altri.

LE FAVE DEI MORTI

A Genova, come in altre città d’ Italia, ci sono delle tradizioni legate alle festività religiose, al calendario ed al ciclo delle stagioni. Nel giorno dei defunti, prima che la festa americana di Halloween facesse il tutto esaurito, era d’uso, oltreché fare visita a chi non é più, consumare le cosiddette “fave dei morti”. Le fave dei morti sono dei dolcetti a base di pasta di mandorle che diventa croccante immergendola in un infuso di zucchero, alcune prestigiose pasticcerie genovesi le propongono per la festa dei Santi e per il 2 novembre come ad esempio quella di San Sebastiano nella via Alessi del quartiere di Carignano.

A GENOVA ANCHE UNA MINESTRA E’POESIA

O MINESTRON

Scegli ‘a verdùa ciù fresca e profumà che nasce in primavèia: faxolin, tomate, fave, puisci, coi, succhin, quarche patatta a tocchi e lascia stà che bògge adaxo tutta ‘na mattin. Quando o l’é giusto de cottùa e de sà, versighe o pesto pronto in to mortà e remescia ogni tanto cian cianin. Caccia poi riso o pasta ‘n pò rezzènte e assàzza spesso in moddo da ese certo che a’ pasta reste ancon ciuttosto ao dente. Servilo intiepidio, pe’ avvèi successo, quando misso in tè xàtte ben coverto o forma ‘a pelle diventando spesso.

da ” I Sonetti” in genovese di Aldo Acquarone

Traduzione per i “Foresti ”

IL MINESTRONE

Scegli la verdura più fresca e profumata che nasce in primavera: fagiolini, pomodori, fave, piselli, cavoli, zucchini qualche patata a pezzi e lascia che stia a bollire lentamente tutta una mattina. Quando é giusto di cottura e di sale, mettici il pesto preparato nel mortaio e rimescola ogni tanto pian piano. Butta poi riso o pasta che tenga la cottura ed assaggia spesso in modo da esser certi che la pasta resti ancora piuttosto al dente. Servilo tiepido, per aver successo, quando messo nelle scodelle ben coperto forma la pelle diventando spesso.

nella foto ” O Minestron con o Scucuzzon ” (*)

(*) Lo Scucuzzon deriva forse il suo nome dal cuscus arabo, é una pasta corta a forma sferica di grano duro tipica del genovesato.

I RISSEU di CARTUSIA

La chiesa parrocchiale di San Bartolomeo della Certosa di Rivarolo, la cui fabbrica iniziò nel lontano 1297, ha due chiostri, uno grande, che al suo tempo fu il più grande della Liguria ed uno più piccolo realizzato nel 1630 circondato da 32 colonne di stile toscano e caratterizzato da una splendida pavimentazione a ” risseu”. Risseu è una parola genovese che significa ciottolo ed i risseu sono una tipicità ligure che consiste nel realizzare una pavimentazione con ciottoli solitamente bianchi e neri che venivano posti sui sacrati delle chiese, dei monasteri e dei conventi; questi ciottoli, presi sulle spiagge e sui greti dei fiumi, venivano disposti in modo da formare disegni dei più vari, solitamente motivi geometrici o fitomorfi desunti forse dalle infiorate che venivano fatte per la solenne processione del Corpus Domini. La posa delle pietre era preceduta da un disegno sui pavimenti destinati ad accoglierli, le pietre venivano scelte con cura e poi poste sopra un fondo composto da malta di calce. Alla Certosa di Rivarolo questa splendida pavimentazione fu realizzata tra il 1572 ed il 1671, si estende per ben 720 metri quadrati lungo il perimetro del chiostro e si sviluppa in 36 riquadri incorniciati e decorati con motivi apparentemente astratti che avevano lo scopo di non distrarre i monaci e favorire la meditazione, in uno di questi é visibile la parola “CARTUSIA” cioè certosa che ricorda come questo complesso monastico sia stato realizzato per la benevolenza della famiglia nobile dei Di Negro che donò il terreno a Bozone priore generale della grande certosa di Grenoble. I certosini restarono in loco sino alla soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone nel1798 e la Certosa fu utilizzata prima come deposito di polveri e poi come ospedale militare, successivamente fu riaperta ed eretta a parrocchia passando al clero secolare. In alcuni punti questo bellissimo pavimento é danneggiato, speriamo che in un prossimo futuro venga restaurato e riportato alla sua primitiva bellezza.

Un Cristo Superstar per un docente di anatomia

A Genova, nel cimitero monumentale di Staglieno, lo scultore Giovanni Battista Villa ( 1839-1899 ) realizzò splendidi gruppi scultorei per le ricche famiglie genovesi, uno di questi fu realizzato nel 1881 dall’artista a ricordo del docente di anatomia dell’Università di Genova Cristoforo Tomati, monumento che fu definito dai critici contemporanei come il suo capolavoro ed anche uno dei più ricchi, rappresentativi e belli della grande Necropoli. Protagonista assoluto della scena é una splendida figura di Cristo vestito con una serica tunica, immaginato dallo scultore come un oratore che con lo sguardo rivolto verso l’alto, impietosito dalla figlia del defunto che lo prega inginocchiata sotto l’arca su cui giace il corpo del padre, intercede per l’anima del trapassato con Dio Padre. Nella volta del sacello si può leggere la frase EGO SUM RESURRECTIO ET VITA ( Io sono la resurrezione e la vita ) frase presa dal vangelo di San Giovanni che continua con : Chi crede in me, anche se muore, vivrà in eterno…L’architettura in cui é inserito il gruppo scultoreo é un abside avente la semi cupola stellata che ricorda i lavori del Bramante. Questa contaminazione tra soggetto sacro e profano é una caratteristica peculiare di questo artista i cui lavori iconografici sono spesso complessi e permeati da realismo, religiosità e mistero, talvolta di tono quasi pre simbolista che alcune volte genera un’atmosfera di ansia e d’inquietudine.

A GENOVA CHI SCAVA TROVA…

Genova fu definita dal poeta Caproni “Città verticale” in una delle sue bellissime poesie, mai definizione fu più appropriata, infatti la città, stretta tra il mare e le montagne che le fanno corona, si sviluppò verticalmente, nel senso che la mancanza di spazio utile fece si che le case vennero realizzate, il più delle volte, in altezza piuttosto che in larghezza sopra i resti delle costruzioni precedenti che venivano interrate; recentemente ne abbiamo avuto un eclatante esempio quando venne rimossa la pavimentazione dell’edificio della cosiddetta Loggia dei Mercanti o della Mercanzia sotto la quale é stata rinvenuta un importante testimonianza della città medioevale e che probabilmente cela a sua volta la città romana che in quell’area aveva i suoi monumenti più rappresentativi. I Genovesi scoprirono la città antica nel 1898 durante i lavori di scavo e successiva costruzione della via XX Settembre, Piazza De Ferrari e via Dante, ceramiche greche ed etrusche vennero ritrovate sotterrate temporibus illis in tombe di ricchi genovesi come corredo funebre, come per esempio quella mostrata nella foto ritrovata durante gli scavi del 1946 nella chiesa di santo Stefano in una tomba, si tratta d’un cratere a calice a figure rosse, reperto greco risalente al 375 avanti Cristo, durante i banchetti, in questa tipologia di vasi biansati, veniva mescolato il vino con acqua e servito ai commensali. La scena principale rappresenta il dio Dioniso ( Il Bacco dei romani ) con diverse figure poste tutte intorno a lui disposte su piani diversi tra cui un genio alato che incorona il dio con una ghirlanda, la sua sposa Arianna ed altri personaggi dei miti dell’Ellade, vaso che potrete ammirare visitando il Museo di archeologia ligure di Pegli.

CARLONE VS PIOLA

Nel XVII secolo a Genova erano attive due grandi famiglie di artisti che si facevano concorrenza senza esclusione di colpi per potersi accaparrare la benevolenza e la stima dei ricchi committenti della Serenissima Repubblica: i Carlone ed i Piola. I Carlone non erano genovesi, provenivano da Rovio, un comune svizzero del Canton Ticino, si trasferirono a Genova nell’ultimo quarto del XVI° secolo, famiglia di scultori e pittori. ebbero grande rinomanza per l’importanza delle opere pubbliche da loro realizzate, come quella mostrata nella foto, affresco dipinto da Giovanni Battista Carlone ( Genova 1603 – Parodi Ligure 1684 ) per la cappella dogale in cui viene raffigurata la presa di Gerusalemme da parte dei genovesi guidati alla vittoria da Guglielmo Embriaco. I Piola, genovesi doc, avevano la loro casa/ laboratorio in fondo a salita san Leonardo, anche loro attivi in Genova dall’ultimo quarto del ‘500. Come detto tutte e due le famiglie cercavano di surclassarsi tra di loro sino a spargere calunnie e vituperi nei confronti degli uni e degli altri non solo in campo artistico, per esempio quando Pellegro Piola fu assassinato, dopo il successo che aveva raggiunto all’età di soli 23 anni per aver dipinto una straordinaria Madonna per la corporazione dei “Fraveghi ” (orefici ), si disse che l’assassino era un sicario pagato dai Carlone per eliminare un pericoloso concorrente, accusa che poi risultò infondata; comunque bisogna precisare che non solo il Caravaggio a Roma fu un pregiudicato, ma anche tra gli artisti che vissero a Genova diversi furono ospiti delle patrie galere, ne faccio qui un breve elenco: Sinibaldo Scorza per lesa maestà, Domenico Fiasella per ferimento, Luciano Borzone per tentato omicidio, Pietro Tempesta per uxoricidio etc. etc. Concludendo, la carta vincete dei Piola fu, a mio avviso, d’essersi imparentati con Gregorio De Ferrari il più grande pittore del periodo barocco che Genova abbia avuto.

Paolo Gerolamo Piola ( Genova 1666-1724 )

Carro allegorico della Liguria trainato da grifi e guidato dalla Prudenza ( maniman…..)(°)

Bozzetto per la sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale

(°) Maniman é un modo di dire genovese che si può tradurre come meglio non rischiare troppo perché ci puoi rimettere tutte le penne della coda.

“LEITUGHE PINN-E” un’antica pietanza genovese

Sin dal lontano 1600 se ne parla di questa pietanza della tradizione genovese, nata probabilmente nei paesini della val Bisagno dove, questa zona particolarmente fertile, fu, sin da tempi remoti, adibita alla coltivazione degli ortaggi che poi venivano portati nei mercati ortofrutticoli genovesi. Questi orticultori vennero detti “besagnini ” per distinguerli da quelli che erano “foresti” ( forestieri, non genovesi ), ritornando alle nostre lattughe ripiene, tradizionalmente si preparano per le feste pasquali e comunque preferite nei mesi invernali, persino poeti ottocenteschi come Nicolò Bacigalupo ne hanno celebrato la bontà. Di questa pietanza ne esistono due versioni, quella più antica era vegetariana (lattughe ripiene di magro ), probabilmente legata alla tradizione del periodo della Quaresima, l’altra, più sostanziosa e ricca, invece contempla un ripieno a base di carne ed era nel passato preferita dalle classi abbienti. Le lattughe ripiene si servono in brodo di pollo accompagnate da crostini di pane abbrustoliti e ….buon appetito.

Lo Sguardo di Colombo

A Genova, di fronte al mare, c’é il “Galata” il più grande ed interessante museo marittimo del Mediterraneo. In una sala dedicata ad uno dei nostri più illustri concittadini, si trova un dipinto realizzato ad olio su tavola ( cm. 53 x cm. 47 ) attribuito a Ridolfo di Domenico Ridolfi ( 1483 – 1561 ) detto Ridolfo del Ghirlandaio che lo avrebbe realizzato postumo nel 1520 circa. L’opera pittorica fu reperita sul mercato antiquario di Firenze verso la metà del XIX secolo da un artista genovese, che riconobbe nei tratti del viso quelli del grande navigatore, questa convinzione fu motivata sia dalla somiglianza del volto con la descrizione fatta dal figlio Fernando, sia per le lettere VS presenti sul dipinto in alto a sinistra facenti parte d’una originale didascalia molto comune nei ritratti del primo ‘500 che presumibilmente era : “ColumbVS novi orbis repertor “. In questo ritratto Colombo viene immaginato con un cappello scuro da cui sporgono disordinatamente i suoi capelli bianchi, non ha vesti preziose, il suo vestito é nero, quasi monacale, senza gioielli ed armi, ritratto a tre quarti con il volto rivolto verso il riguardante ed é proprio qui che l’artista riesce pienamente a cogliere l’aspetto psicologico del personaggio rappresentato, nei tratti fisionomici di questo viso dall’espressione pacata ma con occhi che esprimono grande determinazione insieme ad una ferrea volontà nel perseguire i suoi sogni.

UNA TORRE DI GUARDIA TRASFORMATA IN CAMPANILE

Tanti tanti anni or sono, nell’entroterra di Chiavari, in una vallata circondata da boschi, esisteva una strada carraia ed ancora esiste ( se la percorrerete state molto attenti perché é stretta, a doppio senso di marcia e senza guard rail ) che portava all’antica abbazia di Borzone. Il complesso monastico, unico nel suo genere in Liguria, risale al XII secolo, il felice connubio di pietra e mattoni, nonostante la povertà dei materiali, ci regala un senso d’armonia data dalle ritmate proporzioni del doppio ordine di archetti ciechi che si susseguono senza soluzione di continuità sino ad arrivare alla facciata, purtroppo afflitta da un restauro non consono. Vicino alla Abbazia é un’ imponente antica torre costruita in conci bugnati di arenaria, nella parte inferiore probabilmente nata come torre difensiva risalente all’epoca longobarda, (VI-VII secolo ), poi sopraelevata nel 1243, così come risulta da una lapide murata nel prospetto est che recita testualmente: ” MCCXLIIII abbas Gerardus de Cugurno natus fecit fieri has ecclesia et turrem” ( nel 1243 l’abate Gerardo nato a Cogorno fece costruire questa chiesa e la torre), gli interni della chiesa risentono dei dettami della controriforma, la volta a capriate non è più esistente sostituita da una volta a botte, dietro l’altar maggiore, il prezioso polittico di sant’Andrea del pittore Carlo Braccesco, di cui si hanno notizie nell’ultimo quarto del 400, non è più in loco, lo si può ammirare nel museo diocesano di Chiavari. Il luogo ispira serenità e pace, sedendovi sul sagrato potrete ammirare ai lati dell’ Abbazia due enormi cipressi che sembrano fare da silenziose sentinelle al luogo sacro, uno dei due, quello a sinistra del riguardante per capirci, ha la bellezza di 600 anni ……incredibile ma vero.

Abbazia di Sant’Andrea di Borzone

LA RAPPRESENTAZIONE DELL’ANIMA IN 3D

“Dal Miele il mio nome”, così recita la scritta in latino posta in alto sullo stemma del comune di Mele. Le origini di questo piccolo comune posto nel ponente di Genova, si perdono nella notte dei tempi, in gran parte legate all’antica produzione della carta. Documenti ufficiali che comprovano l’esistenza d’una comunità rurale a Mele risalgono al XIII secolo, oggi il comune, meta di scampagnate domenicali, é famoso per la vicinanza con il santuario di N.S. dell’Acquasanta, per una trattoria dove si possono gustare ottime specialità genovesi e per la chiesa dedicata a sant’Antonio abate, nonché all’annessa “Casaccia ” (oratorio) ed al suo sacello che custodisce uno dei più grandi capolavori di scultura lignea d’Italia : la macchina processionale di Sant’Antonio che assiste al transito di San Paolo eremita, acquistata dai Melesi nel 1874 dall’ oratorio della Confraternita di sant’Antonio e san Paolo detta “dei Birri (sbirri ) ” in via Giulia ( ora via XX Settembre ) non più esistente. La maestosa cassa processionale realizzata da Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739) nel primo decennio del ‘700, ha un peso di circa 10 quintali, per portarla in processione occorrono 16 uomini di forte costituzione fisica, i cosiddetti ” camalli d’a cascia ” ed é, a detta del Ratti, pittore e biografo degli artisti del suo tempo, ” la miglior opera che sia uscita dagli scalpelli del Maraggiano “. Il gruppo scultoreo rappresenta Sant’Antonio Abate che contempla san Paolo eremita ormai morto con due leoni che gli scavano la fossa, mentre la sua anima viene portata in cielo dagli angeli. Spettacolare e meraviglioso il contrasto tra il vecchio anacoreta vestito con una rozza tunica e la sua giovane bellissima anima rivestita con un prezioso drappo di tessuto. Sappiamo da più fonti che Il Maragliano realizzava i suoi gruppi scultorei da disegni dei Piola, ma una cosa é il disegnare una scena ed altra cosa, ben più complessa, è quella di realizzare il progetto in 3D e qui, a mio avviso, questo artista ha superato se stesso.

Dedicato ad Andrea Lamberti, cittadino melese, un eroe del nostro tempo.

GENOVA CITTA’ TURRITA

Vagando senza meta nel Centro Storico di Genova, viene naturale ogni tanto guardare all’insù, un po’ perché in alcuni punti i caruggi si fanno veramente stretti e bui e un po’ perché essendo Genova una città ” verticale ” spesso, guardando in alto, si possono ammirare autentici capolavori. Un giorno attraversando a piedi il sestiere di “Castello ” mi trovai di fronte ad una grande torre medievale circondata da case. Nel Medioevo la nostra città fu caratterizzata da numerose torri un po’ come la città di Volterra e San Gimignano, nel XII/XIII secolo se ne potevano contare un’ottantina che troneggiavano sopra il centro storico, ogni famiglia importante se ne faceva costruire una ed i combattimenti tra famiglie rivali pare fosse all’ordine del giorno generati da motivi politici o economici e spesso ci scappava il morto come s’usa dire. I Padri della Serenissima Repubblica chiudevano un occhio, se la famiglia coinvolta faceva parte della ” Vecchia nobiltà “, li chiudeva anche tutti e due, della serie ” la Legge è uguale per tutti ma per alcuni é più uguale che per altri “, questo concetto arrivò a giustificare legalmente i fatti di sangue riconoscendo “il diritto alla vendetta “. Peraltro, verso la fine del XII secolo, i Consoli stabilirono che per combattere dalle torri era necessaria un’autorizzazione senza la quale, in caso di morti ammazzati, la torre sarebbe stata diruta e in più si sarebbe dovuta pagare una multa di 1000 soldi. Voi vi chiederete ma come facevano a combattere tra torri inserite in un contesto cittadino? la risposta é molto semplice, usavano baliste e catapulte che, notoriamente, non sono molto precise nel tiro. Oggigiorno di queste torri non ne rimangono molte, si possono contare sulle dita d’una mano, la più imponente é proprio quella in cui incappai io detta degli Embriaci che in questo sito avevano terre e case, risparmiata pensai in onore di Guglielmo Embriaco compagno d’arme di Goffredo di Buglione il conquistatore di Gerusalemme nella prima crociata, peccato che invece recenti studi hanno accertato che la torre apparteneva ai De Castro ed il basamento della vera torre degli Embriaci, non più esistente, é ancora visibile all’interno della “Casa Paganini” in Santa Maria di Passione, tuttavia questo errore probabilmente é quello ché l’ha salvata dall’incuria e dai danni del tempo . La torre alta 41 metri fu costruita all’inizio del XII secolo ed ancora oggi dopo quasi 1000 anni si erge fiera verso il cielo di Genova.

IL PRINCIPE DELLE ARENE CANDIDE

Siamo in Liguria e più esattamente a Finale Ligure in provincia di Savona, qui nella prima metà del secolo scorso fu scoperto un interessantissimo sito archeologico, una grotta chiamata delle arene candide perché, anticamente, s’apriva su una duna costiera di sabbie bianche. In questa grotta vennero ritrovate numerose tombe d’epoca “Gravettiana ” (*) tra le quali questa detta del Principe per il ricco corredo funebre deposto vicino allo scheletro, tra cui una cuffia formata da piccole conchiglie. Analisi di laboratorio ci hanno fornito molte informazioni su questo personaggio vissuto 23.440 anni fa, Il principe era un ragazzo di circa 15 anni di corporatura robusta, alto circa un metro e 70 cm. ,faceva certamente parte d’un gruppo di cacciatori/raccoglitori del Paleolitico superiore, le lesioni al cranio ed alla spalla sinistra ci fanno pensare ad una morte violenta, presumibilmente dovuta ad una aggressione d’un animale selvaggio ( orso delle caverne o leone ), se fosse sopravvissuto avrebbe certamente raggiunto l’altezza di un metro e 80 cm. La sua tomba fu rinvenuta a 6,70 metri di profondità nella grotta ed é stata ricostruita nel museo d’archeologia ligure della villa Durazzo Pallavicini di Pegli (GE ) recentemente riaperto al pubblico, se non lo avete ancora visitato vale la pena d’ andare a vederlo, é un vero e proprio tuffo nel nostro passato remoto.

(*) per epoca “Gravettiana ” s’intende una cultura paleolitica diffusa in tutta Europa da 29.000 a 20.000 anni fa.

VICO DEGLI INDORATORI

L’antico “Carrubeo ” ( una volta i caruggi a Genova si chiamavano così ) fu sede delle attività artigiane degli “indoratori” legati alla corporazione degli “scutai ” . Al civico n. 2 vi nacque santa Caterina da Genova il cui corpo incorrotto riposa dentro una bacheca di cristallo nella chiesa di S.S. Annunziata di Portoria. Vico degli Indoratori é ubicato nel sestiere di Soziglia, zona del centro storico genovese dove le botteghe artigiane esercitavano le loro arti, gli “orefici ” nel Campus Fabrorum ( oggi Campetto ) e anche i “macellai” ed i “pollaioli ” avevano qui le loro botteghe. Gli alti palazzi di questa zona anticamente avevano le logge aperte, favorendo così il passaggio delle persone e facilitando i rapporti umani e commerciali, anche tra plebei e ricchi patrizi che poco distante avevano le loro avite dimore, cosa che stupì grandemente Charles Dickens, quando vide tutto ciò con i suoi occhi durante il suo soggiorno genovese. L’arte dell’ indoratore consisteva nell’applicare una sottilissima lamina d’oro su un manufatto impreziosendo non solo armature, scudi ed elmi, ma anche oggetti in legno come per esempio i candelabri ( a Genova dorati rigorosamente solo nella parte a vista ) ed oggetti chiesastici.

nella foto antiche logge medioevali in vico degli Indoratori

“QUARESIMALI” UNA DOLCE TRADIZIONE

I ” Quaresimali ” sono dei tipici dolcetti realizzati dai pasticceri genovesi nel periodo della Quaresima, la loro origine é molto antica perché a Genova, come in altre regioni italiane, nel periodo penitenziale della Quaresima in cui non si poteva mangiare carne e derivati animali, si creò una ricetta per poter consumare un dolce senza contravvenire alle regole della fede cattolica. Ad inventare questi dolcetti furono un gruppo di monache agostiniane della chiesa di san Tommaso oggi non più esistente che, forse sin dal XVI secolo, riuscirono ad inventarsi dei biscottini preparati solo con farina, zucchero, mandorle e l’acqua di fiori d’arancio. I Quaresimali, sono preparati solitamente in tre diverse forme : a forma di losanga arricchiti da marmellata di fichi o limoni. a ciambellina con foro al centro, a pallina tonda scavata al centro e riempita da zucchero colorato semplice o aromatizzato, tutti quanti spesso decorati con una glassa colorata e semi di finocchio in modo da renderli più appetibili e gustosi.

P.S. buona Pasqua a tutti i miei lettori

I “CARTELAMI” LIGURI DELLA QUARESIMA

In Liguria dal XVII secolo, durante il periodo della Quaresima, era in uso esporre nelle parrocchie i ” Cartelami” che erano delle sagome bidimensionali dipinte, alcune volte, da valenti pittori. Queste sagome potevano essere realizzate in cartone ( da cui presero il nome ), in tela, latta o in legno. Le sagome modellate con figure a grandezza naturale venivano, come detto, dipinte per mettere in scena i protagonisti della Settimana Santa ed avevano la “mission” di emozionare, suscitando nell’animo degli spettatori sentimenti di partecipazione ed intense emozioni essendo questi manufatti molto realistici. La Spiritualità barocca, al giorno d’oggi, può sembrarci eccessiva, ma é proprio tipica di quest’epoca, che seguì alla Controriforma trentina, voler meravigliare e stupire i fruitori di opere d’arte profane e sacre proponendo immagini di forte impatto emozionale, che portavano i fedeli a rivivere in questo “Teatro del Sacro” i drammi descritti nei Vangeli, anche in prima persona partecipando a processioni durante le quali ci si flagellava o i Sacri Monti, che erano delle vere e proprie ricostruzioni delle stazioni della via crucis lungo un percorso montano. Ritornando ai Cartelami quelli realizzati in legno furono tra i manufatti più resistenti tra i cosiddetti “effimeri” che , per loro natura, sono di difficile conservazione. Dopo la Santa Pasqua i Cartelami venivano riposti nelle sacrestie e negli oratori.

Nell’ immagine ” Cartelami” fotografati nella mostra “Barocco Segreto” realizzata lo scorso anno a Genova nel palazzo detto ” Della Meridiana “

LA GENOVA DI CHARLES DICKENS

Charles Dickens ( 1812 – 1870 ) fu uno degli scrittori più impegnati e prolifici, con i suoi romanzi mostrò i profondi contrasti e le ingiustizie della società vittoriana della seconda metà del XIX secolo, a Genova soggiornò nel 1844 e nel 1853, le sue prime impressioni sulla nostra città non furono del tutto positive pur restando colpito dal suo porto ” maestoso “, dai suoi palazzi ” arrampicati sulle colline ” e dai suoi ” giardini sopra giardini “, paesaggi che definì non dissimili ad una quinta teatrale. Il Nostro descrisse Genova come una visione onirica, un coacervo di suoni, colori e odori che lo proiettarono in un mondo per lui alieno, maestosi palazzi e chiese monumentali vicine a fruttivendoli, i cosiddetti ” besagnini” , che con gli acquaioli vendevano i loro prodotti per le strade ricolme d’ una folla eterogenea composta di popolani, soldati, preti, monaci e “signori ” che per non sporcarsi i piedi si facevano trasportare in portantina, piano piano Genova gli entrò nel cuore sino ad affermare: ” Genova é un posto che cresce dentro di voi giorno dopo giorno. sembra che ci sia sempre qualche cosa da scoprire . Potrete perdervi venti volte, se volete e poi ritrovare la strada tra difficoltà inaspettate, vi troverete di fronte ai più strani contrasti: cose pittoresche, brutte, meschine, magnifiche, deliziose e disgustose si parano davanti al vostro sguardo ad ogni angolo”, Dickens definì Genova come ” una città che non si finisce mai di conoscere” da villa Bagnarello nel quartiere di Albaro si trasferì con la famiglia nella splendida villa delle Peschiere in centro città, da lì si spinse nel centro storico, ammirò i palazzi di strada Nuova ( via Garibaldi) così ben descritti da Rubens, i ” caruggi ” con i loro ” palazzi molto alti e dipinti con ogni tipo di colori “. Concludendo il suo soggiorno affermò che la ” Superba “, così come la definì il Petrarca, é talmente affascinante e ricca di tesori e segreti come quasi nessun’altra città in Italia.

Nella foto il centro storico con la porta Soprana posta nella cinta di mura dette ” del Barbarossa”

UNA TOMBA DELLA GENOVA ROMANA

Il Museo di Archeologia ligure é ubicato a Pegli all’interno della villa Durazzo Pallavicini, l’importante polo museale nasce nel 1936 ed oggi ha più di 50.000 reperti archeologici provenienti da tutta la Liguria, alcuni dei quali esposti nel museo, reperti che spaziano dalla preistoria all’età antica. Rimasto chiuso per molti anni é oggi nuovamente fruibile al pubblico. Vi voglio raccontare d’un reperto che ho visto e che mi ha incuriosito per la sua peculiarità, é una scultura sepolcrale rinvenuta nel 1936 a “Ponticello” diciamo per intenderci molto vicino alla porta Soprana in occasione degli scavi per la creazione di piazza Dante, si tratta d’una statua in marmo di Cerbero, il cane con tre teste che i greci ed i romani pensavano fosse posto dagli dei all’ingresso degli Inferi, questo ignoto scultore della tarda età repubblicana ( fine del primo secolo d. C. ) lo raffigura con la zampa destra appoggiata su una testa mozzata avente i lineamenti gonfi tipici d’un morto. Quasi certamente questa statua, realizzata in marmo di Luni, faceva parte d’un monumento sepolcrale costruito a lato della strada romana che entrava in città da Levante, presumo che la testa mozzata non sia quella del defunto ma quella d’un suo nemico da lui ucciso e del quale abbia voluto tramandare la disfatta ai posteri.

Talvolta l’Odio cancella la Memoria

L’anno scorso, girovagando senza meta per il centro storico di Voltri, passando in via Guala diretto verso piazzetta Santa Limbania, mi sono soffermato a guardare il portale d’ un antico palazzo che ha un soprapporta marmoreo sovrastato da un cartiglio avente al centro un blasone scalpellato per spregio e sostenuto ai lati da due aquile aventi le ali mozzate. Scalpellare gli stemmi araldici delle famiglie cadute in disgrazia non fu per me una novità, nel centro storico di Genova ce ne sono molti, ma questo mi colpì in modo particolare perché qui non ci si limitò a distruggere la memoria di chi abitava in questo palazzo, ma si volle anche infierire sulle aquile che reggevano lo stemma rendendole mutile, mi accorsi allora della scritta posta sulla trabeazione sottostante la quale recita testualmente: “NON IST HIC OBLIQUO OCULO MEA COMMODA QUISQUAM LIMET: NON ODIO OBSCURO MORSUQUE VENENET Hor.” Allora i miei studi classici si perdono nella notte dei tempi, ma il significato della epigrafe latina, presumo presa da uno scritto di Orazio, mi pare si possa tradurre così: “Non c’é nessuno qui (che ) con occhio malevolo limiti il mio benessere, né (potrà) dissimulare l’odio o morsi velenosi “. Allora mi son chiesto ma di chi sarà stato questo palazzo? e chi fu il nobile caduto in disgrazia che con tanta tracotanza e fierezza si fece scrivere quanto sopra sulla porta della sua casa?” Io non lo so. Se qualcuno dei miei lettori lo sapesse lo invito a raccontarcelo.

Augusto Rivalta scultore

Al cimitero monumentale di Staglieno di Genova e più precisamente nel settore D, contraddistinta dal numero 10, c’é la tomba di Carlo Raggio realizzata dallo scultore Augusto Rivalta nel 1872. Il Rivalta nato ad Alessandria nel 1837, completati gli studi all’ Accademia Ligustica di belle Arti nel 1859, si trasferì a Firenze, dove lavorò nello studio di Dupré. Rivalta fu uno dei primi artisti che aderirono allo stile cosiddetto del “realismo borghese”. In questo monumento funebre, il realismo borghese si rivela come lo stile più adatto per esprimere questa nuova concezione della morte, con questo suo descrittivismo preciso nel definire gli abiti e lo stato psicologico emozionale dei vari personaggi che circondano il letto del trapassato. In questa iconografia, rappresentante un momento tragico della vita d’una famiglia, non ci sono angeli consolatori, ne altre figure simboliche che possono alleviare la sofferenza dei presenti e neanche la speranza di redenzione per chi non é più, ma é volutamente sottolineato solo il senso della perdita. Per sdrammatizzare un po’ il mio articolo, vi racconto una vecchia barzelletta genovese che mi é venuta in mente guardando questo monumento funebre. I parenti costernati ed addolorati circondano il capo famiglia morente il quale con un filo di voce si rivolge alla moglie dicendo: ” Cilla dove sei ? ” e la moglie prontamente gli risponde : ” sono qui Cillo vicino a te ” e lui di rimando le chiede : ” e i miei figli ? ” la moglie replica : ” sono tutti qui stai tranquillo ” e lui ribatte : ” e a me lalla ? ” risponde la moglie . ” é qui anche lei ” e lui sempre con un filo di voce le dice:” ma si può sapere chi é andato ad aprire la bottega stamattina?”

Pé Zena e pé San Zorzo!

“Per Genova e per San Giorgio!” era il grido di guerra dei soldati genovesi, questo santo venerato a Lydda in Palestina visse tra il III ed il IV secolo dopo Cristo, la leggenda del nobile cavaliere in lotta con il drago per liberare una principessa che era stata offerta in olocausto al mostro, risale al periodo medioevale, mediata dai miti greci; di san Giorgio, per la verità, si sa molto poco, se non che fu un valoroso soldato dell’esercito romano e fu martirizzato nel 303 d. C. sotto l’imperatore Diocleziano, perché, dopo aver donato tutti i suoi averi ai poveri, s’era dichiarato cristiano rifiutandosi d’adorare l’imperatore di Roma. Il culto fu approvato da papa Gelasio alla fine del V secolo diffondendosi in Inghilterra alla fine del VII secolo e poi con le crociate. A Genova la devozione per questo santo fu probabilmente portata dai soldati del generale Belisario nel VI secolo d. C. durante la guerra che l’imperatore Costantino aveva dichiarato ai Goti, la nostra città a quel tempo fu una delle più importanti roccaforti bizantine, ma fu nel 1098, al tempo della prima crociata, quando i soldati genovesi ribaltarono le sorti della guerra in Terra Santa favorendo la presa della città d’Antiochia sino ad allora ritenuta inespugnabile, che la fama di questo santo si diffuse a macchia d’olio, infatti il mito racconta che durante la battaglia contro i saraceni, un valente cavaliere che recava un’insegna bianca con una croce rossa apparve in mezzo ai combattenti e da quel momento le sorti della battaglia si capovolsero a favore dei cristiani, in quel cavaliere dalla forza soprannaturale molti credettero di vedere san Giorgio. Già nel 200 il vescovo di Genova Iacopo da Varagine ( Varazze ) nella sua “Legenda Aurea ” avvertiva i suoi lettori che la vicenda di San Giorgio ed il drago doveva esser interpretata non in senso letterale ma simbolico o allegorico che dir si voglia e cioè la battaglia del Bene che prevale sul Male. La sua immagine é visibile sullo stemma del Comune di Genova ed era anche sul glorioso gonfalone della città una volta custodito nella chiesa di san Giorgio nel centro storico di Genova, Gonfalone che veniva solennemente consegnato all’ammiraglio della flotta genovese prima di salpare contro i nemici, gonfalone che scampò a cento battaglie ma non all’imbecillità ed all’ignoranza di coloro che credettero nella libertà portata da Napoleone alla fine del ‘700, che lo presero e lo bruciarono in piazza.

Nella foto: affresco centrale della facciata di palazzo San Giorgio raffigurante San Giorgio che uccide il drago, realizzato all’inizio del 600 dal pittore Lazzaro Tavarone ( 1556-1640 ) discepolo di Luca Cambiaso e ripristinato nel 1992 dal pittore Raimondo Sirotti.

IL FORTE CHE C’E’ MA NON SI VEDE

Per coloro che giungono a Genova per la prima volta ed amano passeggiare vicino al mare, consiglio la ” promenade des genoises” corso Italia, che dalla foce del torrente Bisagno arriva sino all’antico borgo di Boccadasse, sono poco più di due chilometri che si percorrono piacevolmente con i suoi locali di fronte al mare, non molti a dire la verità e con gli stabilimenti balneari, alcuni dei quali come il “Lido “, con una storia alle spalle di tutto rispetto. A circa metà percorso, se volgerete lo sguardo a monte, vedrete dei ruderi circondati da arbusti della macchia mediterranea, i più non ci faranno caso e guarderanno altrove, pensate invece che quei ruderi custodiscono storie e segreti, alcuni dei quali é meglio dimenticare, lì infatti sorgeva il forte di San Giuliano ultima barriera ai nemici di Genova provenienti da Levante. La prima fortificazione in zona risale al 1745, la cosiddetta batteria Sopranis il cui nome derivò dal fatto che i terreni appartenevano ai nobili Sopranis, il forte invece fu costruito dal 1826 al 1836, in esso potevano essere alloggiati 380 soldati ai quali se ne potevano aggiungere oltre 900 sulla ” paglia ” e con questo termine ho paura che i confort per i militi dovevano proprio essere all’osso, in compenso l’artiglieria era di tutto rispetto: sette cannoni da 16, tre cannoni da 8 , 7 obici lunghi, un petriero e 20 cannoncini. Durante i moti del 1849 il forte fu occupato dagli insorti che s’erano ribellati ai Piemontesi, ma il comandante della guarnigione li tradì e i rivoltosi dovettero riconsegnare ai soldati di Vittorio Emanuele II il fortilizio sfilando innanzi a loro disonorati e disarmati. Durante l’ultimo conflitto mondiale, nel forte vennero installati otto cannoni da 76/45 per la contraerea, ma più che per la difesa della città, il forte diventò tristemente noto perché qui venivano portati i cosiddetti “ribelli al regime ” torturati e fucilati. l’area dal 1948 fu assegnata alla Regione Carabinieri Liguria e dal 1995 la caserma retrostante diventò sede del comando provinciale dei Carabinieri di Genova.

RUBENS a GENOVA

Se non l’avete ancora vista, vi raccomando di visitare la bella mostra ” Rubens Genova ” allestita al piano nobile di Palazzo Ducale, qui di seguito vi ripropongo uno scritto preso in una delle numerose stanze a lei dedicate:

Genova paradiso delle donne

“Grande é la libertà delle donne in questa città….” L’eleganza ed il lusso ostentato dalle donne genovesi colpiscono da sempre i viaggiatori che lasciano testimonianze eloquenti, tra le più celebri é quella parzialmente riportata sopra di Enea Silvio Piccolomini poi papa Pio II , che nel 1432 scrive ancora:” … sono certamente belle…da elogiare veramente perché sono nobili e di grande candore, hanno vesti costose, cariche d’argento, oro e pietre preziose, sulle dita smeraldi e diamanti che sono estratti in tutta Persia e l’India. Infatti, per qualsiasi motivo di ornamento , ogni spesa é giustificata”. Con il Cinquecento si esige via via maggior rigore in ragione dell’entrata ( di Genova ) nella sfera politica della cattolicissima Spagna. Il Governo della Repubblica promulga leggi dette “Suntuarie “, che limitano l’esibizione dei tessuti pregiati, gioielli e persino alcuni abbinamenti di colori, ma valgono solo entro le mura cittadine. Sarà per questo che le famiglie (nobili ) passavano gran parte dell’anno in villa? Si deroga anche in occasione di visite illustri, il cerimoniale prevedeva delegazioni di nobili ad accogliere gli ospiti, organizzare feste e ricevimenti, occasioni fantastiche per sfoggiare splendidi abiti e gioielli mozzafiato. Al tempo di Rubens, a inizio Seicento, il potere di queste leggi si affievolisce e l’arredamento sontuoso delle dimore trova un degno corrispettivo nella sfarzosa eleganza delle belle genovesi.

E voi vi chiederete ; ” ma come diavolo potevano lavare questi meravigliosi serici abiti trapuntati in oro ed argento senza rovinarli?” la risposta é molto semplice: ” non li lavavano! ” dopo averli indossati per il ricevimento o la festa che dir si voglia, se li toglievano e li affidavano a servi fidati, i quali, dopo averli esposti “en plein air” ( almeno lo spero ), li riponevano negli armadi, questo non vi deve stupire, anche il fatto del lavarsi nel secolo XVII° non era ritenuto una cosa così importante, quasi disdicevole se si trattava dell’igiene intima, ricordo che la regina Isabella di Castiglia si vantava di non essersi mai tolta la camicia, tanto che i pittori di corte avevano chiamato un colore della loro tavolozza : ” Giallo Isabella “.

nella foto ritratto di Violante Maria Spinola Serra dipinto da Rubens nel 1607 circa, quasi alla fine della sua permanenza in Italia esposto in mostra.

I perché del Lagaccio

Il toponimo di questo quartiere genovese, deriva dal fatto che, nella prima metà del secolo XVI°, qui fu realizzato un bacino acqueo artificiale che il popolino chiamava in senso dispregiativo ” o Lagasso ” . Originariamente questo laghetto artificiale fu voluto da Andrea Doria che s’era fatto edificare una splendida reggia prospicente al mare, circondata da un bel giardino all’italiana impreziosito da fontane le cui acque erano alimentate dal Lagaccio da cui si dipartiva un acquedotto terminante con un lavatoio pubblico. Più tardi, il governo della Serenissima Repubblica di Genova, utilizzò queste acque per alimentare le fabbriche di polvere da sparo impiantate anticamente nella valle del rio San Tomaso, interrato nella metà del secolo scorso, che sfociava nei pressi dell’attuale stazione marittima di Ponte dei Mille. Le acque del lago d’inverno ghiacciavano ed i bambini ne approfittavano per andare a pattinarci sopra, mentre d’estate ci andavano a nuotare, secondo le cronache dell’epoca, furono numerosi i casi d’annegamento, per cui, quando il ” Lagasso ” fu interrato negli anni 70 del secolo scorso, la gente del quartiere ne fu felice, al suo posto fu costruito un campo di calcio. Il Lagaccio, oltre per il fatto che diede il nome ad un intero quartiere, é oggi conosciuto in tutto il mondo per l’omonimo celeberrimo biscotto che un piccolo forno produceva in loco sin dal 1593 e che ancora oggi viene riconosciuto come il biscotto genovese per antonomasia.

Pellegro Piola, un artista assassinato per sbaglio

Nel centro di Genova, da via santa Chiara si può arrivare in piazza Dante scendendo lungo una antica creuza: la salita San Leonardo. La creuza é rimasta come doveva essere nel medio evo, al centro mattoni pieni messi di costa ed ai lati pietre di mare consumate dalla pioggia e dal vento, dico questo perché bisogna stare ben attenti a non inciampare data la pendenza e l’irregolarità della pavimentazione, così è difficile per il passante frettoloso accorgersi che in una delle ultime case della salita sopra il portone d’ingresso c’é un architrave marmorea con su scritto: “Hostis Abi Limina Time ” che significa ” Nemico Vattene abbi paura di questa porta ” una scritta di per se incomprensibile considerando il fatto che è posta in una casa di moderna costruzione, allora vi voglio raccontare una storia tragica che riguarda quella casa o meglio la casa che sorgeva lì prima che i bombardamenti della flotta del re di Francia Luigi XIV la fecero crollare. In questo sito sorgeva la casa laboratorio d’una delle famiglie di pittori più rinomati di Genova : “I Piola “, tra cui il giovane Pellegro ( Genova 1617-1640 ) che aveva raggiunto fama e notorietà dipingendo una Madonna con Gesù bambino su ardesia per conto della Corporazione degli Orefici, Pellegro a 23 anni s’era già sposato ma, nonostante questo, non disdegnava d’uscire con altri giovani la sera per far bisboccia nelle taverne del suo sestiere, e così in quella fatidica notte del 25 novembre del 1640 Pellegro uscì di casa con i suoi amici tra cui un chierico di nome Giobatta Bianco e andò in giro a divertirsi… ma mentre ritornò a casa vide dei lanaioli che orinavano sul muro della casa d’un suo amico e li apostrofò in malo modo ( dovete sapere che al tempo per chi si macchiava d’un atto del genere era prevista la tortura della fune ) quelli risposero e dalle parole passarono ai fatti …. cominciarono a tirarsi pietre, poi si azzuffarono e a questo punto il Bianco tirò fuori un pugnale e con quello ferì all’addome Pellegro scambiandolo per uno dei lanaioli, questi, visto che la situazione era degenerata, se la diedero a gambe dileguandosi nella notte e lì restarono i due amici, il Bianco disperato per quello che aveva fatto ed il povero Pellegro ferito che fu portato a casa e morì in giorno seguente. Nessuno dei famigliari del Piola volle accurare il chierico, assassino per sbaglio, ma anche nel XVII secolo il gossip la faceva da padrone, così presto si venne a conoscere la verità, peraltro la giustizia secolare si scontrò con quella della Sacra Rota Criminale, per cui alla fine il perdono gli fu concesso il 19 marzo del 1646 e da allora di Giobatta Bianco nessuno seppe più niente.

Madonna Regina tra due santi di Pellegro Piola ( Accademia Ligustica delle belle Arti )

Articiocche cò-e euve ( Imbrogliata di Carciofi )

Questo piatto rustico della tradizione Ligure e più specificatamente della città di Albenga, famosa per la produzione di questi ortaggi, é chiamato anche “fricassea “, se qualche volta avete bisogno d’una pietanza da preparare e non avete molto tempo ve la consiglio caldamente perché, oltre ad essere un piatto veloce, é anche un piatto buonissimo, naturalmente per coloro che amano le uova ed i carciofi, i più buoni sono, a mio avviso, quelli della zona d’ Albenga riconoscibilissimi perché questa varietà detta” carciofo violetto spinoso ” si distingue dalle altre per le spine in cima alle foglie esterne e per la colorazione che va dal violaceo al verde scuro. Il tempo di preparazione è complessivamente di 3/4 d’ora e poi buon appetito……

RICETTA DI CASA MIA PER 2/3 PERSONE

Prendere 5 carciofi di Albenga, pulirli delle foglie esterne più dure, togliere le punte spinose poi divideteli a quarti e quindi a fettine sottili togliendogli le barbe, metteteli quindi in una ciotola piena d’acqua fredda e di fette di limone , così non diventano neri , lasciandoceli per una mezzora. Preparate un trito con uno spicchio d’aglio e prezzemolo e farli soffriggere in padella con olio extra vergine ( se ligure é meglio perché più leggero ) , quando l’aglio é dorato si aggiungono i carciofi dopo averli scolati ed asciugati, rimescolate con un cucchiaio di legno e copriteli con un coperchio, di tanto in tanto aggiungete un po’ d’acqua calda in modo che i carciofi non si asciughino troppo, A parte preparate una tazza, metteteci 4 uova sgusciate, i bicchierino di latte , 2 cucchiai di parmigiano, sale e pepe q.s. e sbattete il tutto con una forchetta, quando i carciofi sono teneri, aggiungete il contenuto della ciotola rimescolando il tutto con il cucchiaio di legno quindi servire la “fricassea ” immediatamente ai commensali, più é calda e più é buona.

Del “VERO” Del “FALSO” e Del “Così Così”

Al Palazzo Ducale di Genova sino al febbraio 2023 si potrà visitare la bella mostra su Pieter Paul Rubens curata da Anna Orlando e da Nils Buttner, possiamo affermare senza tema d’esser smentiti che è una mostra di successo stante che oltre 40.000 persone l’hanno già vista ed apprezzata, tutto filava liscio sinché i carabinieri del nucleo della tutela del patrimonio culturale hanno posto sotto sequestro un dipinto arrivato dalla Polonia, sembra che la ragione stia nel fatto che originariamente il quadro fosse in Italia e che i proprietari lo esportarono illecitamente con il benestare della Soprintendenza di Pisa pur sapendo che era un originale del grande pittore fiammingo e classificato invece come “Scuola del Rubens “. Sicuramente i Carabinieri hanno agito in buona fede, come atto dovuto, probabilmente su segnalazione di qualcuno non certo amico degli attuali proprietari, ma, a questo punto ritengo doveroso spiegare ai non addetti ai lavori quando un dipinto si può senza alcun dubbio dichiarare opera autentica d’ un maestro. non basta che la materia pittorica, lo stile e la qualità lo denuncino come tale, ma occorre che ci siano in concomitanza prove incontrovertibili che le misure e l’iconografia dell’opera risultino citate dalle fonti storiche, per esempio perché descritte come facenti parte del patrimonio lasciato in eredità da Caio o Tizio, o su elenchi di spese sostenute da una nobile committenza sempre con la descrizione dell’opera, del pittore incaricato e della somma pagata per l’opera sua, in caso contrario la certezza assoluta non esiste e quindi i pareri rilasciati restano delle semplici “opinioni” e un’opinione può esser sempre messa in discussione. Nell’esercitare il mio mestiere di mercante d’arte antica ebbi la fortuna ed il privilegio di conoscere ed apprezzare grandi storici dell’arte quali : Federico Zeri, Mina Gregori e tanti altri e tutti mi dissero che l’errore di giudizio é pur sempre possibile trattandosi di “opinioni” e non di sentenze definitive, anche i più accreditati storici dell’arte possono incorrere in errate valutazioni persino il grande Zeri scrisse un libro “Confesso che ho sbagliato “…. Detto questo, esiste una gamma d’espressioni per catalogare un dipinto quali: “ATTRIBUITO” secondo l’esperto il dipinto preso in esame é autentico del Maestro. “BOTTEGA” secondo l’esperto il dipinto fu realizzato nella bottega del Maestro da uno sconosciuto collaboratore. “CERCHIA” secondo l’esperto il dipinto fu realizzato da un ignoto pittore vissuto all’epoca del maestro e da lui fortemente influenzato. “STILE ” e/o “SEGUACE” si ha quando il dipinto non è del maestro ma da un ignoto pittore del suo tempo o quasi contemporaneo che imita il suo stile. “MANIERA” l’esperto pensa che il dipinto sia stato realizzato da un pittore vissuto in un’epoca successiva a quella del maestro. L’opera esposta al Palazzo Ducale e posta sotto sequestro fu originariamente attribuita alla “SQUOLA” altro modo per dire Seguace, cioè un dipinto non autografo del maestro e quindi la valutazione di 25.000 euro mi sembra congrua, anzi francamente esagerata. Recentemente il Centrum Rubenianum di Anversa, che é il più accreditato istituto di ricerca storica e artistica per la pittura di Rubens, ha riconosciuto in questo dipinto la mano del grande artista fiammingo, ma, pur essendo un parere autorevole siamo sempre nel campo delle “OPINIONI”. Concludendo vorrei dirvi che durante il mio periodo d’attività come mercante d’arte antica, ho visto e sentito tutto ed il contrario di tutto, dipinti attribuiti ad autori celeberrimi da storici dell’arte di chiara fama contestati da altri storici con argomentazioni delle più varie, non esclusa l’invidia, per cui un dipinto attribuito a “Caio” veniva poi attribuito a “Sempronio”e dopo un lustro riattribuito a “Caio”, talvolta neppure la firma ( per la verità assai rara ) può aiutare ad attribuire con certezza un dipinto e allora di cosa stiamo parlando? Per Il quadro della Madonna di fronte al Redentore, lo ribadisco sommessamente, non ci sono ragioni plausibili per un sequestro, perché la dichiarazione che si tratta d’un dipinto del grande pittore fiammingo e della sua bottega fatta da un prestigioso istituto resta pur sempre una semplice ‘”OPINIONE” e tale rimane con tutti i pro ed i contro del caso.

P.S. nella foto” San Sebastiano curato da un angelo” di P.P. Rubens replica del famoso dipinto del palazzo Corsini di Roma. Volutamente non ho pubblicato la foto del dipinto messo sotto sequestro, se volete potete andarlo a vedere in mostra.

IL PRESEPE GENOVESE

Il presepe genovese si può dire che abbia due anime, una artistica ed una popolare, la massima produzione di statuine presepiali si ebbe del XVIII secolo, periodo nel quale molte botteghe artigiane si dedicarono alla costruzione di statuine alcune delle quali raggiunsero una qualità artistica così alta da far pensare che anche la bottega di Anton Maria Maragliano, celeberrimo scultore su legno sita in via Giulia ( l’attuale via XX settembre ) ne abbia costruite, anche se nessuna fonte storica sia mai riuscita a provarlo. Le statuine furono realizzate come manichini in legno snodati con i volti finemente rifiniti e poi consegnate a sarti che, a seconda del personaggio rappresentato, li completavano con vestiti appropriati al loro ceto, nelle figure tradizionalmente non poteva mancare la contadinella giovane e la vecchia dalla forte mascella, il pastore barbuto con un cappellaccio sulla testa , il giovin signore, il mendico macilento e paralitico, il contadinello glabro, le venditrici di frutta ed ortaggi, lo zampognaro e, naturalmente, il corteo dei re Magi con i loro soldati. La Madonna veniva vestita con poche varianti, solitamente aveva una veste rossa o bianca di foggia spagnola secentesca e manto blu o azzurro, san Giuseppe invece aveva l’abito talare violaceo ed il mantello giallo, i vestiti dei pastori ed i popolani rispecchiavano quelli delle classi meno abbienti, mentre per i nobili venivano cuciti da sarti e ricamatori dei vestiti corredandoli di nastri minuscoli, bottoncini, galloni ed anche, per le signore, di minuscoli orecchini in filigrana d’argento nonché di collanine di corallo, alcune volte in argento erano anche le armi dei soldati dei Magi così come si possono ancora ammirare nel presepe della chiesa di san Bartolomeo di Staglieno. Lo scenario in cui venivano poste le statuine era realizzato con materiali poveri come il muschio, il sughero ed il cartone, pochissimi sono quelli superstiti, perché data la loro fragilità ed il loro riutilizzo da un Natale all’altro quasi tutti andarono perduti, comunque possiamo avanzare delle ipotesi sulla traccia di rari documenti d’archivio e dei cartelami che sono giunti sino a noi.

La Foto soprastante é del presepio della chiesa delle suore Giuseppine di Genova.

Un cammino di ronda splendido per un picnic

Le Mura dette ” Delle Cappuccine ” fanno parte di quelle ” Miage de Zena ” ( mura di Genova) realizzate a partire dal 1546 su direzione dell’architetto milanese Giovanni Maria Olgiati. I nuovi bastioni al fronte di terra si resero necessari perché le vecchie mura trecentesche s’erano mostrate inadatte a fronteggiare l’ attacco d’un esercito nemico munito di armi da fuoco. Queste mura si chiamano così perché nella zona di Carignano le suore Clarisse cappuccine vissero per secoli in un grande convento che dovettero abbandonare nel 1880 per la costruzione dell’ospedale Galliera. Quest’area per moltissimi anni fu in completo abbandono sino a che, non molto tempo fa, fu fatta dal comune di Genova una grande opera di restauro che ha permesso il recupero estetico del tratto del cammino di ronda che si sviluppa dalle mura delle Cappuccine sino alle mura dette “del Prato “, trasformando così quest’area in una piacevolissima passeggiata in cui vi sono due belvedere muniti di spazi per i picnic con panche e tavoli in pietra, panchine per rilassarsi e per ammirare lo splendido panorama dei monti che circondano la città visti dalla foce del torrente Bisagno, allora penserete chissà come saranno contenti i genovesi di questa bella opportunità che ha ridato luce e bellezza ad un posto dimenticato, si ma non tutti….. vi chiederete perché? ve lo racconterò in poche parole, dovete sapere che in una delle aiuole lungo le mura é stata posta la statua di Giorgio Parodi, uno dei co-fondatori della celeberrima azienda motociclistica ” Moto Guzzi”. Giorgio Parodi nato nel 1897 e morto nel 1955, oltre che imprenditore, fu anche un valoroso pilota aviatore nella prima guerra mondiale e fin qui niente di male, ma il Nostro è stato rappresentato dallo scultore Ettore Gambioli in divisa da aviatore fascista…. per cui apriti cielo…… perché se é vero che l’Italia fu per un ventennio fascista, nessuno se lo vuole ricordare e allora bisogna far finta che non lo sia mai stata e rimuovere tutto quello che ci riporta indietro a quel periodo ed invece, lo dico sommessamente, a mio avviso, é meglio ricordare sia il male che il bene della nostra storia, perché come diceva Primo Levi: ” Chi dimentica il proprio passato é condannato a riviverlo”.

Giuseppe Ratto avvocato dei poveri

A Genova, nel cimitero monumentale di Staglieno, é di tutta evidenza che nella seconda metà del XIX secolo per le classi della media e dell’alta borghesia avere un monumento sepolcrale costituiva uno status symbol assolutamente irrinunciabile, questo fenomeno culturale finì per , diciamo così, suggestionare anche le classi meno abbienti, che destinarono i risparmi d’una vita di lavoro alla propria autocelebrazione in marmo. Lo scultore genovese Lorenzo Orengo ( 1838-1909 ) ne fu buon testimone. Il Nostro, figlio dello scultore Luigi Orengo, studiò all’ Accademia Ligustica e fu allievo di Santo Varni specializzandosi nei gruppi monumentali funerari, che, come già detto, erano richiestissimi. Qui vi voglio raccontare della tomba del cavalier Giuseppe Ratto insigne avvocato. Il monumento si trova nel settore D contraddistinto dal n. 30, fu realizzato dall’Orengo nel 1890 quando nel suo stile verista erano ancora evidenti suggestioni neoclassiche. L’avvocato é raffigurato in piedi su un plinto marmoreo con la toga ed un libro in mano, sulla base del piedistallo é mostrata in basso rilievo una bilancia che invece d’avere i piatti equidistanti quale allegoria della giustizia, li ha sovrapposti uno sull’altro come a dichiarare che trattare in maniera eguale persone che sono profondamente disuguali per il loro status e per il loro modus vivendi in molti casi si genera un’ ingiustizia, alla destra del monumento è scolpita una povera donna inginocchiata in atteggiamento supplice con suo figlio che si presume orfano, perché fosse chiaro ai posteri che l’avvocato Ratti, vita natural durante patrocinò gratuitamente la povera gente. Dalla parte sinistra una grande creatura angelica sorregge uno scudo con su scritto ” Solo Nobilitas Virtus ” che significa” Unica Nobiltà é la Virtù ” motto mediato dal collegio monzese Bianconi che deriva da uno scritto di Giovenale poi usato anche da Dante Alighieri nel suo ” De Monarchia”. Sul pilastro che sorregge il monumento si legge un lungo epitaffio che ricorda le doti liberali e caritatevoli del defunto ed i simboli dell’ alpha e dell’ omega inizio e fine del tutto.

AMARCORD

Mi rivolgo ai miei 4 lettori per raccontarvi qualcosa di me, mi chiamo Mauro Silvio Burlando ed ho creato questa pagina in un momento molto particolare della mia vita, ma cominciamo da principio, sono un mercante d’arte antica ed avevo una piccola galleria antiquaria a Genova in via Roma al numero 55R, come gran parte dei genovesi, pur vivendo in una città meravigliosa, non me ne rendevo conto, sino a quando nel 2015 mi é stato diagnosticato un cancro al colon traverso in stato avanzato che mi lasciava poche probabilità di sopravvivenza, solo allora mi sono accorto di quanto è bella Genova ed ho cominciato a scrivere della mia città come un atto dovuto e riparatorio per tutta l’indifferenza che sino ad allora le avevo riservato, e questo parlare di Genova della sua bellezza e della sua storia mi é servito per superare i momenti bui che ogni malato oncologico deve attraversare. Oggi sono ancora qui ad ammirare i suoi tramonti e a ringraziarvi di seguirmi spero con interesse e simpatia. Cordialmente Mauro Silvio

il Mito della Santa Polena

Era l’anno del Signore 1636, nel giorno 17 ( poi dicono di non essere superstiziosi…. ) del mese di Gennaio un terribile uragano sconvolse la costa di Genova, tremendi marosi si abbatterono sulla nostra città e sui vascelli che cercarono rifugio nelle sue acque protette o presunte tali. Una delle tanti navi che fecero naufragio fu un veliero irlandese di cui nessuno rammenta il nome, la nave venne letteralmente distrutta ed affondata dalla furia del mare in tempesta, solo la sua polena fu rinvenuta il giorno dopo galleggiante in mezzo ad innumerevoli rottami nelle acque tranquille della Darsena. Secondo uno scritto di Lorenzo Zignago la statua lignea fu gettata dalle onde dapprima sul ponte detto dei Chiavarii, poi, nuovamente ghermita dal mare, fu scagliata sul molo vecchio restando miracolosamente incolume, dopodiché fu trascinata nel bacino della Darsena. La statua, rappresentante la Madonna con in braccio il Bambino Gesù, fu acquistata da due marinai che la portarono in un magazzino d’una casa di via Pré di proprietà dei Lomellini, qui avvenne il primo fatto miracoloso, una bambina che abitava con la sua famiglia in un piano alto di quella dimora, cadde dal balcone ed arrivò al suolo illesa, ai numerosi passanti che sentirono le sue urla ed accorsero per darle soccorso disse:” la Signora vestita d’azzurro che sta nel magazzino mi ha preso tra le sue braccia e mi ha deposta incolume a terra “. La notizia del miracolo si diffuse velocemente in tutta la città e la Polena fu portata in solenne processione nella vicina chiesa medioevale di san Vittore, arrivati che furono nel tempio, i portatori si fermarono innanzi alla nicchia che era stata destinata ad accogliere la statua, ma quando si accinsero a sollevarla, questa si sollevò motu proprio collocandosi sul suo piedistallo tra la meraviglia e lo stupore degli astanti. La chiesa di san Vittore non é più esistente, fu demolita nel 1837, ma la Santa Polena é ancora visibile nella chiesa di san Carlo in via Balbi, é là da 223 anni che troneggia dall’altar maggiore riccamente vestita ed incoronata con il nome di ” Regina della Fortuna “, nome per la verità inconsueto per la tradizione cristiana, probabilmente derivante dal fatto che la Statua della Madonna vinse una furiosa tempesta di mare che come sappiamo viene chiamata anche “fortunale”.

Un’ Abbazia per i Cantautori genovesi

Tanti tanti anni or sono, quando la costa di Genova era costellata da scogliere dove le onde del mare si frangevano senza posa, i monaci costruirono un’abbazia che dopo mille anni ancora esiste. L’edificio di culto fu dedicato a san Giuliano, un santo egiziano nativo di Antinoe città della Tebaide, giustiziato per decapitazione durante le persecuzioni ai cristiani fatte durante l’impero di Diocleziano alla fine del terzo secolo dopo Cristo. La costruzione pare risalga al X secolo, ma le prime notizie documentate sono del 1282 quando l’abbazia era abitata da i frati Minori Conventuali, poi nel 1309 il complesso passò ai monaci Cistercensi, nel 1429 subentrarono i Benedettini che restaurarono gli edifici conferendo alla chiesa l’aspetto attuale, nel 1460 arrivarono i monaci della Corvara ed alla fine i Cassinesi, dopo di che nel 1797 arrivò Napoleone con le sue leggi anticlericali, cacciò i monaci e l’abbazia fu adibita a fabbrica di biacca. Quarantacinque anni dopo, Luigi Rolla acquistò l’abbazia che fu affidata ai Certosini e riaperta al culto, ma l’odissea di questa chiesa non finisce qui, nel 1884 subentrarono i Benedettini di Subiaco che se ne andarono nel 1939 alla vigilia della seconda guerra mondiale, da allora gli edifici vennero abbandonati sino a diventare nei primi anni del dopoguerra rifugio per gli homeless. Negli anni ’70 del secolo scorso cominciarono i lavori di restauro da parte del Demanio dello stato ed oggi, dopo decenni di progetti andati in fumo ed iniziative volatizzate nel nulla, si sta parlando di farne il Museo dei Cantautori Genovesi che mi permetto di scrivere con la maiuscola perché la canzone genovese della seconda metà del ‘900 ha lasciato a mio avviso un’impronta importante ed indelebile nella musica leggera italiana.

Post dedicato alla mia amica Giuliana Pellegrino

DA FARMACIA A MUSEO

“…La strada Lomellina assai larga e spaziosa, dal Fossatello alla strada dei Forni nella direzione di Greco maestosa dirigesi….” così veniva descritta la via Lomellini di Genova da un anonimo viaggiatore del 1818, da tempo dichiarata patrimonio dell’ Umanità dall’ UNESCO, imboccando questa strada da piazza della Zecca verso piazza Fossatello passiamo innanzi a splendide dimore, alla bella chiesa dedicata a san Filippo Neri ed al suo splendido oratorio e dalla parte opposta la facciata d’un palazzo con tre ingressi, da uno inizia un vicolo che conduce alla soprastante via Cairoli, in quello centrale e nel terzo si accede alla casa di Giuseppe Mazzini ora museo del Risorgimento. Viene naturale pensare che per un uomo così grande un prospetto marmoreo con due geni alati contrapposti ed ai lati, vasi istoriati scolpiti in bassorilievo ricolmi di fiori e frutti, siano stati il minimo sindacale per celebrare uno dei protagonisti che contribuirono a costruire la nostra nazione da secoli divisa, ma non é così, quello era l’ingresso d’una farmacia costruita alla fine del XVIII secolo nel palazzo che appartenne agli Adorno, lo stile neoclassico dei fregi ce lo rivela. In questa casa nacque nel 1805 Giuseppe Mazzini che vi visse con la sua famiglia sino al 1809 dopo di ché i Mazzini si trasferirono in un’altra abitazione poco distante. Alla morte del grande patriota avvenuta nel1872, alcuni suoi discepoli comprarono l’appartamento dove nacque per farne un sacrario, dopodiché il sito fu donato al comune di Genova che lo dichiarò monumento nazionale accorpando lì l’Istituto Mazziniano e trasferendo lì il Museo del Risorgimento. Nel Museo sono esposti cimeli delle guerre risorgimentali che si fanno partire dalla ribellione dei Genovesi contro gli austriaci, istigati alla rivolta dal sasso scagliato da un ragazzetto chiamato Balilla contro i soldati che volevano costringere alcuni passanti a spingere un cannone che s’era impantanato a Campetto. Tra i vari oggetti esposti uno mi colpì più degli altri : il bauletto dove furono messi i resti mortali di Nino Bixio, famoso generale di Garibaldi. Dopo la proclamazione del Regno d’ Italia, Bixio s’era imbarcato con Salvatore Calvino nel 1873 partecipando ad un’impresa di navigazione per collegare commercialmente l’Italia con l’Estremo Oriente, in un’isola vicino a Sumatra contrasse il colera e morì, fu seppellito sull’isola di We, ma la tomba fu profanata dagli indigeni, così i poveri resti furono cremati, messi in quel piccolo baule e riportati in patria, dove furono più tardi tumulati nel Pantheon del cimitero monumentale di Staglieno. La scritta in greco sulla porta dell’ex farmacia che corrisponde al latino: “Ars Longa Vita Brevis” sembra una epigrafe dedicata alla sua esistenza.

STURLA antico borgo di pescatori

Sturla é un quartiere di Genova il cui toponimo deriva dal torrente Sturla che divide in due il suo territorio, un corso d’acqua raramente in secca che nasce più a nord nella zona di San Desiderio e per circa dieci chilometri scorre in una stretta valle chiusa dal monte Fasce da una parte e dal monte Ratti dall’altra. Sturla sino alla fine del XIX secolo ed all’inizio del XX aveva pochi insediamenti urbani formati da case sparse di contadini e pescatori. Le notizie più antiche che riguardano questo borgo risalgono al XIV secolo e ci parlano di acerrime lotte tra la fazione guelfa e quella ghibellina, sembra impossibile ma gli uomini, anche se riuniti in piccole comunità che si possono contare sulle dita d’una mano, riescono a litigare ed ad ammazzarsi con estrema determinazione invece di aiutarsi l’un l’altro, come accadde nell’anno del Signore 1322 in cui le forze guelfe attaccarono le forze ghibelline asserragliate nel castello di Sturla e lo bombardarono con l’uso d’un trabucco ( una sorta di catapulta fissa ) costringendo il comandante Antonio Doria alla resa dopo due giorni di lanci incessanti di pietre.

GENOVA IN BIANCO E NERO

A Genova le costruzioni antiche più rappresentative furono costruite in pietra bianca e nera. Sin dalla metà del Duecento al marmo bianco di Carrara veniva contrapposto il nero della pietra di Promontorio. Il Promontorio di Capo di Faro oggi non esiste più se non nel suo punto estremo verso il mare, dove fu costruita la ” Lanterna ” il simbolo di Genova per antonomasia. Anticamente, prima che venisse spianata quest’ area, esisteva una cava da cui veniva estratta questa pietra grigio-nera così simile al marmo, più dura dell’ardesia ma meno facile da lavorare. Contrapponendo la bande bianche alle nere negli edifici e nelle chiese venivano a crearsi splendide geometrie, che viste da distante sembrano tutte uguali ma non é così, se le guardate attentamente vi renderete conto che le strisce nere sono più alte di quelle bianche rispettando una rigorosa proporzione, prendendo per esempio l’antica misura genovese in “palmi ” , quelle nere per ogni palmo ne hanno un decimo di palmo in più, perché il nero alla vista si ritira, un espediente, un illusione se volete, realizzata senza l’ausilio di tecniche astruse o di strumentazione speciale ma solo dall’esperienza tramandata da maestro costruttore a maestro costruttore.

Nella foto una torre della Cattedrale di San Lorenzo.

La Corporazione dei Setaioli

C’era una volta a Genova la potente corporazione dei Seateri ( Setaioli ), nei capitoli dell’arte dei tintori d’éndeghi ( indaci ) e sete della città e dei borghi di Genova, erano raccolte le normative in lingua latina e volgare dei secoli XIV – XVI che riguardavano tra l’altro i colori con i quali era possibile tingere i drappi di seta, colori che andavano dal morello di grana al rosso vermiglio di coconiglia ( cocciniglia ), dal colore negro di vitriola all’éndego ( indaco ) che era una materia tintoria tra le più usate e pregiate. I “Setaioli ” erano per lo più collocati nella città vecchia nella zona di Ponte Reale. Quest’arte si tramandava da padre in figlio ed alcune famiglie, come per esempio la mia, quella dei “Burlando” proveniente da Aggio Ligure, sin dal Medio Evo, si specializzò in questo antico mestiere ed acquisì tanta notorietà da essere pubblicata nel libro delle famiglie blasonate dello Scorza.

Storia d’una Giustizia perduta e poi ritrovata

Nel centro storico di Genova, nascosta come una perla preziosa, é la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di piazza Pellicceria, tra i tanti capolavori esposti in questo avito palazzo, c’è una statua che rappresenta la Giustizia, sul suo petto fu scolpita una bilancia a significare l’equità del giudizio e sul cartiglio che reca in mano é scritto: ” DILEXISTI IUSTITIAM ODISTI INIQUITATEM ” il cui significato é : amasti la giustizia ed odiasti l’iniquità, frase di derivazione biblica che si dice abbia pronunciato in punto di morte il papa Gregorio VII nel 1085. Questa statua faceva parte del monumento sepolcrale commissionato dall’imperatore di Germania Enrico VII a Giovanni Pisano ( Pisa 1248 c. – 1315 c. ) in memoria della sua amata moglie Margherita di Brabante morta a Genova di peste nel 1311. Il monumento funerario terminato nel 1313 fu posto nella chiesa di san Francesco di Castelletto e da subito meta di pellegrini che venerarono Margherita come una santa. La regina fu rappresentata come un’anima festante sorretta da angeli con lo sguardo sorridente rivolto verso il Cielo ed il suo sarcofago sorretto dalle quattro virtù cardinali : la giustizia, la prudenza, la fortezza e la temperanza. Passarono gli anni e poi i secoli, alla fine del 1500 il monumento venne distrutto, non se ne conoscono le cause ed all’inizio del XIX secolo fu distrutta anche la chiesa di San Francesco di Castelletto della quale resta qualche rara testimonianza, ma dal lontano passato riemersero nel secolo scorso alcuni frammenti di questo capolavoro, i più importanti ritrovati nella villa della duchessa di Galliera a Voltri, oggi conservati nel museo della statuaria medioevale di sant’ Agostino e la statua della Giustizia ritrovata in un giardino d’una villa genovese che ha trovato dimora nella casa che appartenne agli Spinola e prima di loro ai Grimaldi ed ai Doria oggi uno dei più interessanti musei di Genova.

Una Madonna armata contro i crucchi

Quando si visita il parco della Duchessa di Galliera a Voltri ripercorrendo gli antichi sentieri costeggiati da alberi secolari dove i soli rumori sono lo stormire delle fronde scosse dal vento, il canto degli uccelli e d’estate il frinire delle cicale, si arriva in cima alla collina, lì è il santuario di Nostra Signora delle Grazie. Secondo una leggenda, la fondazione di questo tempio risalirebbe ai tempi della predicazione in Liguria di Nazario e Celso, cioè al primo secolo dopo Cristo, ma é più probabile che la primitiva costruzione risalga al 343 così come risulterebbe da una lapide trovata nelle vicinanze. Originariamente la parrocchiale fu dedicata a san Nicolò ed aveva vicino un ospitale per accogliere i pellegrini, più tardi venne edificato un convento affidato ai padri cappuccini. La Duchessa di Galliera comprò l’intero complesso nel 1864 e la chiesa fa adibita a Pantheon della sua famiglia. Il tempio fu restaurato nel XIX secolo in stile romanico pisano così come doveva essere all’origine. Secondo la tradizione, durante la guerra di successione austriaca, dopo che a Genova nel quartiere di Portoria il giovane chiamato “Balilla ” aveva dato inizio ad una rivolta sanguinosa contro gli invasori austriaci nel 1746, l’anno seguente, la Madonna di questo santuario apparve ai soldati nemici che s’erano accampati nelle vicinanze, vestita di turchino e con una spada in mano, costringendoli ad una fuga disordinata. L’apparizione miracolosa é ricordata da un rosone della chiesa in cui é rappresentata la Madonna con Gesù bambino in braccio, sotto l’immagine é un cartiglio che recita testualmente: ” Con la sua apparizione Maria coronò l’opera cominciata in Portoria”.

Storia di Limbania santa bambina

Nell’anno del Signore 1190 l’isola di Cipro faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente, l’anno successivo, durante la terza crociata, Riccardo I Plantageneto re d’Inghilterra, passato alla storia come “Cuor di leone” più che per il coraggio per la sua spietatezza nei confronti dei saraceni, conquistò l’isola per usarla come base operativa contro i suoi nemici, in un secondo tempo la vendette ai cavalieri templari che a loro volta la rivendettero a Guido di Lusignano che si proclamò re di Cipro, questa premessa serve per capire che nel 1190 quando nacque Limbania la sua patria era come un vulcano pronto ad eruttare. Limbania che apparteneva ad una famiglia agiata, forse per la crudezza dei tempi in cui visse, forse perché sin da giovanissima sentì la “chiamata” del Signore, desiderava consacrarsi a Dio ed entrare in un convento, ma suo padre era di diverso avviso e la promise in sposa ad un nobile cipriota, quando la bimba aveva solo 12 anni. Limbania provò a convincere il padre a desistere, ma questi sdegnosamente si rifiutò anche di parlarne di questa sua presunta vocazione, allora la bimba fuggì di casa, si recò in porto e lì conobbe un capitano genovese che aveva un vascello ancorato al molo pronto a salpare, lo supplicò in lacrime di portarla via con se e questi sulle prime le disse di si, ma approfittando d’ un momento di distrazione della bambina, fece salpare l’ancora e si diresse verso l’ imboccatura del porto filandosela, come s’usa dire , all’ inglese, quando la nave arrivò in mare aperto onde furiose la risospinsero verso il porto sino al molo dove Limbania lo stava aspettando in lacrime, così la bimba salì a bordo e dopo un viaggio periglioso finalmente la nave arrivò in prossimità di Genova, qui i venti e le correnti meteo marine trascinarono la nave verso la terribile scogliera di San Tommaso vicino all’omonimo convento benedettino, alcuni marinai terrorizzati si gettarono in mare avendo perso completamente il controllo della nave, ma non lei che in piedi a prua, immobile come una polena, attese che la nave si arenasse lì dove oggi nel porto di Genova è la Calata che porta il suo nome, scese e si diresse verso il convento, dove visse tutta la sua vita pregando e facendo penitenza. Si dice che prima di staccarsi definitivamente dal mondo, visse per alcuni anni a Voltri dove esiste una chiesetta a lei dedicata risalente al XIII secolo, proprio lì sembra dimorasse e vivesse in letizia con gli uomini e con Dio. Una curiosità, si narra che il padre furioso per la fuga della figlia pare non abbia trovato di meglio che prendere la campana della loro cappelletta e farla buttare in mare urlando : ” Vai via anche tu! Vai da Limbania ” e la leggenda racconta che la campana, non si sa come, dopo qualche tempo fu ritrovata su una spiaggia genovese.

Luigi Pastorino il parsimonioso.

Il cimitero monumentale di Staglieno, con gli splendidi monumenti sepolcrali posti lungo le pareti dei suoi imponenti porticati neoclassici, è uno dei più importanti musei della scultura otto- novecentesca del mondo. La rappresentazione del dolore umano di fronte alla fine della vita mortale, assunse in questo luogo, nel corso del XIX secolo, forme espressive diverse che ben son rappresentate in questo vero e proprio museo a cielo aperto. Uno degli artefici di questi capolavori fu lo scultore Giuseppe Navone nato a Genova nel 1855 che nel 1902 realizzò un gruppo scultoreo per celebrare la dipartita d’un medico chirurgo che di nome faceva Luigi Pastorini. Il Navone apparteneva alla scuola del cosiddetto ” Realismo Borghese ” uno stile che si configurava in una visione molto realistica del defunto spesso circondato dai suoi famigliari o da persone comunque a lui care. Per il Pastorini il Nostro ideò una complessa allegoria nella quale una donna alata rappresentante la” Medicina”, con l’aiuto d’una altra figura alata rappresentante la ” Munificenza ” volgente lo sguardo verso l’effige del defunto, porge un aiuto concreto ad una suora infermiera che sorregge tra le sue braccia un bambino malato. Bellissimo il contrasto tra la delicatezza quasi eterea delle figure alate ed il crudo realismo con cui lo scultore rappresenta la suora cappellona ed il bambino. Emblematico del personaggio trapassato é l’epitaffio che si legge su un pilastro posto sotto il monumento che recita testualmente : ” A Luigi Pastorini medico chirurgo insigne, della religione osservatissimo, che per sovvenire largamente al povero cui legò il ricco suo censo con operosità ligure accumulato, visse con parsimonia antica”. Per coloro che desiderano visitare Staglieno, é stato recentemente creato al suo ingresso un info point nel quale potrete trovare informazioni su visite guidate e sulla collocazione dei più importanti e significativi gruppi sepolcrali.

LA FINE DI GENOVA

Ci sono momenti nella nostra vita che mai vorremmo rivivere, momenti in cui facciamo un’autoanalisi di quello che é stato e di quello che avrebbe potuto essere, degli amici che non sono più, e di quelle strade che hai percorso faticosamente senza arrivare da nessuna parte, é allora, in quei momenti bui che ti fanno star male e ti senti solo, che più solo non si può, vai a Voltri dove finisce la grande Genova, scendi in spiaggia, siediti e guarda il mare, non sarà la panacea per lenire tutti i tuoi mali ma credimi ….aiuta.

Sant’Eusebio il Bosco dei Briganti

Sant’Eusebio é un quartiere di Genova il cui toponimo deriva dall’omonima parrocchia di cui si hanno notizie sin dal XIII secolo, del borgo che sorge intorno a questo tempio si comincia a parlare quando alla fine del XI secolo i monaci benedettini dell’abbazia di San Siro di Struppa si trasferirono in questo luogo fondandovi una nuova chiesa ed un ospitale destinato a dare ricovero ai pellegrini che attraversavano questa valle diretti alle città sante della cristianità. Il luogo, a quel tempo, era chiamato “Luco ” dal latino “Lucus ” che significa bosco sacro poiché il sito era circondato da boschi rigogliosi, che di sacro per la verità avevano poco e niente, nel senso che si prestavano benissimo a dare ricovero ai briganti i quali, compiute le loro ruberie, potevano indisturbati fuggire in queste foreste che davano loro garanzie di incolumità e di ricovero. Una di queste bande fu colpevole d’un efferato delitto del quale mai si seppe il movente: un sacerdote fu assassinato mentre celebrava la messa proprio nella chiesa di Sant’Eusebio che, per questo fatto di sangue, fu chiusa al culto per molto tempo. Alla fine del XIX secolo, sino alla metà del secolo scorso, Sant’ Eusebio fu chiamata “La Svizzera Genovese” per l’amenità del paesaggio e fu meta di scampagnate domenicali da parte di molte famiglie genovesi compresa la mia essendo presenti nel paese numerose trattorie ed osterie. Vivide nella mia mente le colazioni a base di fave, salame, formaggio sardo e vino bianco.

BAROCCO SEGRETO A GENOVA

Il collezionismo è esistito sin dai tempi dell’impero romano, quando per decorare i giardini e le dimore patrizie si ponevano sculture e manufatti della Magna Grecia. Anche a Genova nei secoli XVII e XVIII, paradossalmente quando la città perse quasi tutte le sue colonie e come potenza marinara era in netta decadenza, una classe dirigente formata dalla vecchia nobiltà e dalla nuova, disponendo d’una enorme capacità finanziaria, volle farsi costruire splendidi palazzi così belli da indurre Rubens a descriverli o meglio celebrarli in un suo libro ed in questi palazzi, come scrigni preziosi, venivano esposti capolavori realizzati da tantissimi artisti italiani e d’oltralpe, attirati come da una calamita dal dio denaro che a Genova sembrava avesse posto la sua dimora. Il nuovo stile “Barocco ” nato proprio per stupire, estasiare ed emozionare con la sua teatralità, era quello che ci voleva per decorare e rendere indimenticabile al visitatore un’esperienza visiva. La mostra ” Barocco Segreto ” allestita nel meraviglioso palazzo detto della Meridiana che appartenne ai Grimaldi, ci mostra ceramiche, argenti e dipinti barocchi appartenenti a collezioni private e quindi per la prima volta accessibili a tutti, alcuni veri e propri ” Cabinet painting” come li chiamano in Inghilterra, destinati ad essere guardati e goduti solo dai fortunati proprietari.

Nella foto sopra : Un dipinto olio su tela del pittore genovese Paolo Gerolamo Piola ( 1666-1724 ) mostra Achille vestito da donna tra le figlie del re Licomede che viene smascherato da Ulisse quando preferisce brandire una spada piuttosto che rivolgere la sua attenzione ai tessuti preziosi ed ai gioielli destinati alle fanciulle.

VIVA IL CRISTO BIANCO

Le Casacce (*) genovesi organizzavano per la settimana santa diversi riti tra cui processioni solenni dove venivano portati trionfalmente fuori dalle pareti degli oratori i Cristi in legno scolpiti e dipinti in policromia. Uno tra i più famosi di questi é il Cristo “bianco” dell’ Oratorio di Sant’Antonio Abate alla Marina mostrato nella foto, questo Cristo morto in croce fu realizzato nel periodo che va dal 1710 al 1715 dallo scultore Anton Maria Maragliano ( Genova 1664 – 1739). La scultura alta cm. 162 ha un peso considerevole, anche se cava all’interno, questo accorgimento fu approntato dall’artista per alleggerirla, dato che i portatori di Cristi non si limitavano a trasportare queste grandi sculture senza l’uso delle mani e delle braccia in bilico con la punta inferiore della croce ficcata dentro un bossolo di cuoio assicurato alla vita da una cintura, ma anche perché, oltre a portarli, saltavano e compivano esercizi alcune volte spericolati tra il tripudio della folla che li incitava gridando in questo caso : ” Viva Il Bianco “.

(*) le “Casacce ” genovesi erano delle Confraternite d’origine molto antica che nacquero per scopi assistenziali e religiosi, composte da membri laici che si riunivano saltuariamente in un oratorio per adempiere a quanto previsto dai loro statuti.

“Gattafura”é la Torta Pasqualina

La torta Pasqualina è una torta salata tipica della Liguria, sostanzialmente era ed é il piatto forte realizzato per festeggiare la santa Pasqua , da qui il nome; attualmente, ma presumo anche prima, si preparava anche per festeggiare l’arrivo della primavera. La sua preparazione non é facilissima, gli ingredienti principali sono una pasta sfoglia ripiena di bietole, uova sgusciate, maggiorana e la “prescinseua” una cagliata fresca che è di difficile reperimento fuori dalla Liguria. La prima documentazione storica sulla Torta pasqualina risale al ‘500, un letterato ed umanista lombardo dal nome di Ortensio Lando da Milano nato nella prima metà del XVI secolo ne dissertò nel suo ” Catalogo degli inventari delle cose che si mangiano et bevono” dichiarando, per quel che lo riguardava, che a lui piaceva più che all’orso il miele. Le uova intere al suo interno sono da considerarsi simbolo di rinascita e le più ardite delle cuoche che si cimentavano nella preparazione della torta, cercavano di farla con ben 33 strati di pasta sfoglia in onore degli anni di Cristo. Una curiosità da mettere in evidenza è che le torte venivano siglate in modo da poterle riconoscere, dato che non tutti possedevano un forno nella loro abitazione, molti si recavano a cuocerle nel forno comunale e quindi era assolutamente necessario distinguerle per evitare appropriazioni indebite. Il Lando chiama la Torta Pasqualina Gattafura perché sembra che il suo gatto amasse saltargli sopra e sfondare la sfoglia con gran disperazione degli astanti. E per finire vi voglio ricordare quanto scrisse il poeta Martin Piaggio a proposito da Pasqualinn-a:

Beneita mille votte e benexia

E benedetta quella magnettinn-a

chi sa fa unn-a tortetta Pasqualinn-a

e ve-a presenta cada e brustolia.

Beneito sae quell’euggio chi l’ammia

e quell’odò ch’a manda da vixinn-a:

L’erbetta, o coccon fresco de pollinn-a

e quella prescinseua chi scappa via;

Beneita segge a meizoa co cannello,

O siaso e a faenn-a chi se lascia tià,

E l’euio chi ven zù comme un spiscioello,

Beneito segge o forno co fornà

O testo, o tondo a ciumma co cotello…

E quella bocca chi ne peu mangià.

Un ringraziamento alla Rosticceria “Gilberto ” di via Galeazzo Alessi di Genova Carignano per la gentile collaborazione.

ANDREA SANTO SUPPLENTE ALLA CHIESA DEL GESU’

Nella bella Piazza Matteotti, che secoli or sono fu la piazza d’armi del Palazzo Ducale, c’é la bellissima chiesa del S.S. Nome di Gesù e dei santi Ambrogio e Andrea, più conosciuta come chiesa del Gesù, stante che fu la Compagnia di Gesù fondata da sant’Ignazio da Loyola a ricostruirla alla fine del ‘500. ora vi racconto un fatto singolare, non tutti sanno che le due statue poste nei nicchioni ai lati del portone d’ingresso della chiesa non sono le originali, quelle che anticamente davano il benvenuto ai fedeli rappresentavano San Francesco Saverio e Sant’Ignazio, in un secondo tempo, un po’ perché il papa Clemente XIV ordinò lo scioglimento dell’Ordine nel 1773, un po’ perché ci furono i moti rivoluzionari della fine del ‘700 ed anche perché nel 1848 i Gesuiti dovettero andarsene stante che il regno di Piemonte e Sardegna aveva fagocitato tutti i beni appartenenti al clero, le statue in quell’anno furono sostituite da quelle di Sant’ Andrea e di Sant’ Ambrogio, realizzate dallo scultore Michele Ramognino ( Varazze 1821 – Genova1881) che da santi supplenti dopo 174 anni di onorato servizio possono pretendere a pieno diritto d’essere considerati Santi Titolari. Singolare è l’atteggiamento di Sant’Andrea che sporgendo dalla sua nicchia sembra dire: ” Pòscito-ese ma a Zena no ciéuve ciù ? “.: Traduzione per i foresti : (Accidenti ma a Genova non piove più ? ).

GENOVA BAROCCA

Lo stile barocco determinò nel XVII° secolo gli stessi sentimenti che alcuni secoli dopo crearono i movimenti artistici della pop art e dell’ espressionismo astratto di Jackson Pollock. Il distacco da schemi precostituiti ha da sempre generato sentimenti di avversione da parte dei fruitori delle opere, così accadde anche a geni assoluti come il Caravaggio al quale i committenti rifiutarono dipinti da lui creati, perché si staccavano in maniera prepotente da quello che era il comune sentire dell’epoca in cui visse. La bella mostra allestita nel palazzo Ducale di Genova ci racconta, attraverso immagini per lo più inedite, quello che accadde nella nostra città dal punto di vista artistico in questo periodo memorabile che, data l’enorme potenza finanziaria della classe oligarchica genovese, attirò a Genova grandi artisti come Rubens e Van Dick, dando inizio ad una stagione per la quale il ‘600 fu chiamato: ” El Siglo de los Genoveses”. La mostra propone opere di scultura e di pittura molto interessanti perché, il più delle volte, provenienti da inaccessibili collezioni private, uno o due per autore, quelle ritenute più emblematiche della sua poetica e del suo stile.

Nella foto: ” Le Danaidi ” dipinto olio su tela realizzato da Valerio Castello ( Genova 1624 – 1659 ) nel 1655 poco prima che la grande pestilenza che decimò la popolazione genovese nel sesto decennio del XVII° secolo lo uccidesse giovanissimo.

BAROCCO LA FORMA DELLA MERAVIGLIA

Il termine “Barocco” deriva dal francese “baroque” con il quale veniva indicata una perla mal formata, questo termine é mediato dalla parola portoghese “barroco” e dallo spagnolo “barrueco ” che sostanzialmente stanno ad indicare una forma fuori dall’ordinario, bizzarra, inconsulta e stravagante insomma uno stile che doveva esser considerato un insulto alla logica ed al buon gusto, pertanto possiamo affermare che, all’inizio del suo percorso, questa corrente artistica venne dai più respinta e derisa, ma a Roma tre artisti la fecero diventare così grande da influenzare la moda e lo stile di tutta Europa, tre uomini geniali il cui cognome iniziava con la lettera “B” Bernini, Borromini e Berrettini meglio conosciuto come Pietro da Cortona. Anche a Genova la stagione “Barocca” ebbe grandi interpreti nella scultura e nella pittura celebrati nella stupenda mostra nel palazzo Ducale di Genova : ” Barocco, l’essenza della meraviglia. ” che invito tutti i miei lettori a visitare, l’allestimento é stupendo e le luci che danno vita alle opere consentono la loro piena leggibilità.

Nella foto : Maria Vergine regina di Genova, realizzata dallo scultore tardo barocco genovese Francesco Maria Schiaffino ( Genova 1689 – 1765 ) collocata sull’altare della cappella Dogale anch’essa visitabile.

ADONE E VENERE A PALAZZO REALE

Nella meravigliosa galleria degli specchi del Palazzo Reale di Genova, si possono ammirare due delle più graziose statue scolpite da Filippo Parodi ( Genova 1630- 1702 ) prestigioso artista genovese discepolo del Bernini. Le due sculture si ispirano alle celeberrime “Metamorfosi ” di Ovidio e rappresentano una Venere la dea dell’amore e l’altra Adone, un bellissimo giovane del quale la dea s’innamorò perdutamente perché, mentre guardava il ragazzo passeggiare nel bosco, si graffiò inavvertitamente con una freccia di Cupido che, come è risaputo, le stava sempre vicino. Il dio Marte, l’amante ufficiale della dea che , per la verità, era sposata con il dio Vulcano, ma questi, abituato ai tradimenti di sua moglie, evidentemente non ci faceva più caso, la prese molto male, s’infuriò come una bestia e sapendo che Adone aveva un debole per la caccia, si trasformò in un feroce cinghiale ed alla prima occasione lo uccise. Venere disperata si rivolse a Giove il re degli dei, il quale mosso a pietà, stabilì che Adone potesse lasciare gli Inferi sei mesi all’anno per poter tornare dalla sua amata Venere, tutto ciò con gran dispetto di Marte e, aggiungo io, con grande gioia del marito Vulcano che, finalmente, poté anch’egli ridere di chi l’aveva cornificato da un’eternità. Attualmente le due statue, in marmo bianco di Carrara parzialmente dorate, sono state spostate insieme a quelle di Clizia e Giacinto. Il nuovo allestimento, ideato dall’architetto Giovanni Tironi, permetterà ai visitatori del museo di poterle ammirare a tutto tondo come prima non era possibile essendo le sculture addossate alla parete. Un grazie per questa felice iniziativa alla direttrice del Palazzo Alessandra Guerrini ed al direttore delle collezioni Luca Leoncini .

CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE….

Con questi versi del Petrarca voglio celebrare un luogo del quale, me compreso, sino a poco tempo fa ignoravo l’esistenza : ” I Laghetti di Nervi ” . L’ antico comune di Nervi, che da molto tempo fa parte della grande Genova, era ed è famoso per il suo microclima dovuto alla protezione dei monti Moro e Giugo che salvaguardano il borgo dai freddi venti invernali, per la sua splendida scogliera che si può ammirare dalla passeggiata a mare intitolata ad Anita Garibaldi, per i suoi magnifici parchi, nonché per i musei che sono ubicati in antiche ville nobiliari ed in palazzi patrizi. Il toponimo ” Nervi ” secondo alcuni deriverebbe dal fatto che in questo sito si erano rifugiati dei soldati romani fedeli all’imperatore Marco Nerva al quale vollero dedicare questo luogo ameno, per altri invece deriverebbe dalla scritta celtica che si poteva leggere sull’antico stemma del comune di Nervi : ” NEAR AV INN ” che significa luogo vicino al mare, ma torniamo a parlare di questi laghetti che ribadisco, sono ignorati dai più, perché la gran parte della gente é attirata dalla parte costiera che é una delle più belle della Liguria; per raggiungere i laghetti bisogna lasciare l’auto parcheggiata all’inizio della via Molinetti di Nervi, poi iniziare un percorso a piedi che, pur essendo ripido in alcuni punti, non presenta grosse difficoltà, vedrete sopra di voi incombere l’imponente viadotto autostradale che porta verso Recco, non fateci caso e proseguite il cammino sino a vedere sulla vostra sinistra un’antico ponte in pietra sotto il quale scorre il torrente Nervi, superato questo sito troverete la prima di queste pozze d’acqua chiamata lago scuro, che in verità scura non é, dovrebbe invece chiamarsi lago smeraldo per il suo colore verde acceso, proseguendo il cammino ne troverete altre, ma vi do un consiglio, aspettate che piova perché dopo mesi e mesi di siccità attualmente sono in secca.

IL MITO DI PACIUGO E PACIUGA

Tra i tanti miti e leggende della città di Genova che ci vengono tramandate, ce n’é una veramente singolare, una storia d’amore, devozione, gelosia, morte e coup de théatre finale che lascia veramente senza fiato, neanche la fervida fantasia di Salgari o Verne sarebbe riuscita ad immaginare un racconto così incredibile. La storia si svolge nella Genova del XI° secolo nella zona di Pré, che prende il nome dai prati che a quel tempo lì erano e degradavano dolcemente verso il mare, costellati di case sparse in una delle quali vissero una coppia di sposi che si amavano teneramente, lui chiamato “Paciugo ” fu un marinaio che spesso si imbarcava per pescare al largo delle coste africane, lei detta ” Paciuga” di professione casalinga. Un giorno Paciugo, mentre era impegnato in una campagna di pesca, fu catturato dai Turchi (vi preciso che, per i genovesi, ” Turchi ” erano tutti gli islamici di colore e non) ridotto in schiavitù e per 12 anni non se ne seppe più niente. Paciuga però mai perse la speranza di rivederlo sano e salvo, tutti i sabati con la pioggia o col sole, si recò a piedi al santuario di Coronata e lì pregò la Madonna di farle riabbracciare suo marito, naturalmente, alcune sue vicine di casa vedendola partire presto e rientrare in serata, cominciarono a sparlare di lei, perché anche nel XI° secolo lo sport preferito da certa gente era la calunnia, e questa calunnia passando di voce in voce divenne certezza: ” quella Paciuga, poco di buono, tradisce spudoratamente e continuamente quel disgraziato di suo marito che ebbe l’unico torto d’aver sempre lavorato come una bestia per farle fare la bella vita”. Dovete sapere che a Genova esisteva una associazione che aveva la “mission” di raggranellare denaro per poter riscattare i cittadini genovesi fatti schiavi, e fu così che, dopo 12 anni di assenza, Paciugo poté ritornare a casa sua, ma essendo di sabato, la trovò deserta, ora diciamocelo, non essendoci all’epoca telefoni, fax o e-mail fu un po’ pretestuoso da parte sua pensare che sua moglie fosse, dalla sera alla mattina, chiusa in casa ad aspettarlo, tuttavia, non trovando la sua donna Paciugo s’incavolò di brutto, uscì dalla magione e cominciò a correre a destra ed a manca chiedendo notizie della sua consorte, naturalmente, da sfigato quale era, chiese anche ad una megera che allegramente gli disse della tresca che sicuramente sua moglie aveva con un non ben definito cavaliere, figuratevi un po’ il pover uomo come ci rimase, male per usare un eufemismo, malissimo rende di più l’idea, così, con questo stato d’animo che lo faceva adirare sempre più, Paciugo aspettò il ritorno di sua moglie, quando la vide sul far della sera rientrare a casa, la fermò, si fece riconoscere ed invece d’abbracciarla l’ accusò d’essere una fedifraga e una sporcacciona, la povera Paciuga ci restò così male che a malapena riuscì a dire che non era vero e che lei pregava per il suo ritorno nel santuario di Coronata, ma lui, accecato dalla rabbia e dall’odio, la trascinò su una barca, si mise ai remi e quando fu al largo la pugnalò al cuore, le mise una pietra al collo e la gettò in mare. Subito dopo aver commesso questo, diremmo oggi, “femminicidio ” Paciugo si pentì del suo insano gesto, ritornò sulla terra ferma e si recò al Santuario di Coronata per chiedere perdono alla Madre di Dio. Giunto al Santuario, che sorge sopra un colle sovrastante la zona di Cornigliano, si prostrò davanti alla statua della Madonna chiedendo perdono piangendo, fu allora che una figura di donna gli si presentò innanzi , subito non la riconobbe perché, avendo la luce alle spalle, la vide come un’immagine trascendentale, poi quando le fu vicino vide che si trattava di Paciuga viva e vegeta, la Vergine Maria l’aveva salvata ed evidentemente resuscitata. La storia quindi finì bene e i due sposi vissero, per il tempo che a loro fu concesso, felici e contenti. Nel Santuario di San Michele e Santa Maria, chiamato dai più Santuario di Coronata, esistono nella navata sinistra due statue di Paciugo e Paciuga con scritta la loro storia, naturalmente, per i non credenti, resta una bella favola, ma, evidentemente, qualcuno pensò che questa storia avesse un qualche fondamento se nel XVII° secolo gli ex-voto per grazia ricevuta in questo Santuario raggiunsero il numero di oltre quarantamila.

Simulacro della statua della Madonna del XI° secolo distrutta da un incendio nel 1600 e ritrovata sotto un altare distrutto nel 1943 da una bomba sganciata da un aereo inglese durante la seconda guerra mondiale.

GENOVA VERTICALE….

A Genova la via Frate Oliverio contraddistingue forse la parte più caratteristica del centro storico cittadino, qui sono i portici di Sottoripa che anticamente erano lambiti dal mare e qui sono le alte palazzate che avevano al piano terreno i magazzini dove venivano accumulate le mercanzie scaricate dalle navi dai “camalli ” . Negli ultimi anni del secolo scorso sono stati fatti numerosi restauri alle facciate di questi palazzi, rimuovendo i vecchi intonaci deteriorati dai venti che spirano dal mare e dal salino, sono riemersi, come naufraghi perduti nell’oceano e poi ritrovati, gli antichi prospetti medievali che ci raccontano la storia millenaria della nostra città e allora ci sentiamo piccoli e ci tornano in mente i versi di Giorgio Caproni quando scrisse: ” …Genova città pulita. Brezza e luce in salita. Genova verticale, vertigine, aria, scale…”.

UNA PORTA DIMENTICATA

In un mio precedente post pubblicato il 22 Dicembre del 2019 vi raccontai la storia della grandiosa Porta di Santo Stefano detta “Degli Archi ” che fu demolita, anzi direi smontata, in occasione dell’allargamento della via Giulia di Genova ridenominata in seguito via XX Settembre. Vi ricordate della Porta che non c’é più e che c’é ancora? ricostruita nel tratto delle mura della prima metà del XVI° secolo che da Carignano porta in via Banderali, ebbene torno in argomento perché nel mio scritto dimenticai di precisare un fatto veramente straordinario: le due antiche ante lignee della grande porta sono ancora esistenti con le loro cerniere di ferro e le loro borchie forgiate a mano, una rarissima testimonianza del nostro passato ignorata dai più tranne che dai vandali e dai graffitari che l’hanno deturpata con le loro scritte senza senso sotto il severo sguardo lella statua di santo Stefano di Taddeo Carlone posta in una nicchia sulla sommità del varco. Ora io mi chiedo, ma é possibile che esistendo un assessorato alla cultura in questa nostra martoriata città, a nessuno sia mai venuto in mente di preservare per le generazioni future questo manufatto, che essendo un unicum assume, a mio avviso, una grande importanza? speriamo che alla fine qualcuno se ne ricordi, perché, come diceva il grande giornalista Indro Montanelli, ” Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.”

LA SALITA DI SAN BERNARDINO

A Genova la salita di san Bernardino dell’antico quartiere del Carmine prende il nome dalla chiesa di San Bernardo dell’Olivella, che originariamente fu la chiesa abbaziale delle monache cistercensi, il portone di questo tempio si trova proprio in cima alla salita, questo sito è un posto veramente singolare considerando che si trova ubicato a due passi dal caotico centro città, eppure così silenzioso e direi nascosto, quasi che sia restio a farsi conoscere e frequentare dalla gente, la luce del sole arriva filtrata dagli alti muri delle case e dai contrafforti che le legano le une alle altre come fossero braccia amorose, nonché dalle funi tese tra gli edifici per stendere i panni freschi di bucato, in questo posto sembra che il tempo si sia fermato e chi sale questa “creuza” parla sotto voce, come se si trovasse all’interno d’una chiesa, timoroso di rompere quel senso di pace e di solitudine che lì si respira.

Il Campanile dagli otto profili

Questa descrizione della torre nolare della chiesa di San Donato di Genova é presa da una poesia di André Frenaud ( Il silenzio di Genova ), il campanile ottogonale, realizzato in pietra di taglio nel XII secolo, sostituì il tiburio a torre ed é composto di tre ordini di colonne sovrapposte, bifore, trifore e quadrifore, queste ultime aggiunte nel XIX° secolo dal D’Andrade. Nel 1650 qui avvenne un fatto veramente singolare, il nobile Stefano Raggio, che aveva la sua dimora vicina alla chiesa, insieme ad un gruppo si sgherri a lui fedeli, salì sulla torre e da lì si mise a sparare con gli archibugi agli sbirri ai quali era stato ordinato d’arrestarlo per alto tradimento, facendone fuori tre o quattro prima d’esser catturato e tradotto nelle patrie galere. Il suo peccato mortale fu d’aver parlato malissimo, anche in pubblico, del Doge Giacomo De Franchi, così, una calunnia tira l’altra, fu accusato di preparare un colpo di stato ed addirittura di voler assassinare il Doge, a nulla valse il fatto che in passato il Raggio ricoprì importanti cariche pubbliche in modo esemplare e che le prove della sua colpevolezza fossero estremamente labili, fu condannato a morte per impiccagione senza tanti complimenti. In prigione, quando capì che non c’era speranza d’una revisione del processo, si fece portare da sua moglie un crocifisso che celava un pugnale e con quello si ferì mortalmente, ma questo non bastò per evitargli la forca, i birri lo presero e lo trascinarono al molo vecchio, dove venivano eseguite le condanne alla pena capitale e lì lo impiccarono per “lesa maestà”. A Genova c’è una leggenda per la quale il fantasma del Raggio si aggirerebbe ancora lì dov’era la sua casa e in autunno talvolta apparirebbe nella chiesa di san Donato appoggiato ad una colonna vestito di rosso.

“Le Casacce ” misericordiosi si ..ma con sfarzo

Come già da me scritto in un mio precedente post, le confraternite genovesi sono gruppi di persone che si riuniscono in associazioni laiche con finalità spirituali ed assistenziali. La loro costituzione si perde nella notte dei tempi, comunque nel 1582 a Genova se ne contavano ben 134, ognuna legata ad un oratorio ( la cosiddetta Casaccia) dedicato ad un santo patrono. Al loro nascere, i membri delle ” Casacce ” si vestivano con abiti penitenziali, alcuni addirittura con teli di sacco ed incappucciati, seguendo la regola evangelica che recitava testualmente: ” ….fai che la tua mano destra non sappia cosa fa la sinistra … ” poi però, con il passare del tempo, gli abiti furono un’ occasione per mostrare lo sfarzo e la ricchezza della ” Casaccia ” di appartenenza, così la cappa rossa contraddistingueva le confraternite Trinitarie, quella azzurra le Mariane, quella nera le confraternite della morte ed orazione, quella marrone di assistenza ai condannati ed i carcerati ed infine quella bianca ( la più comune ) la cura dei pellegrini , dei malati e dei poveri. Questo gareggiare in magnificenza nel XVIII° secolo generò una sorta di acredine tra i membri dei vari oratori che talvolta sfociò in vere e proprie risse da strada quando si incontravano in processione, un fenomeno così preoccupante da spingere i padri del Comune ad emettere una “Grida ” nella quale si regolarono le manifestazioni religiose in modo che le “Casacce ” , diciamo così, rivali o meglio più litigiose, non si incontrassero mai .

nella foto rara mantellina genovese da confraternita in velluto rosso e bordature in gallone dorato con placca in argento sbalzato e cesellato raffigurante il battesimo di Cristo punzonato torretta anno 1820

ZEMIN DE CEIXAI UN PIATTO VEGANO DELLA TRADIZIONE LIGURE

La zuppa di ceci in Zimino è un’antica ricetta della cucina ligure povera, un piatto che una volta, quando mangiare di magro era obbligatorio per i credenti, si consumava il venerdì e nel giorno dei morti, cosa che sembra fosse considerata di buon auspicio. Il nome “Zemin” è un tipo di pietanza per la quale si utilizzano le bietole, ma l’etimologia del nome “Zimino” si ritrova anche in altre regioni con significati diversi, in Liguria significa anche piatto semplice o di magro. si potrebbe affermare, senza timore d’esser smentiti, che la zuppa di ceci in zimino é un piatto vegano per eccellenza, infatti i suoi ingredienti sono tutti rigorosamente vegetali. La ricetta é semplice, ma la zuppa si prepara in due giorni, perché i ceci secchi ( un etto per persona ) devono stare in ammollo per almeno 12 ore, praticamente tutta la notte, gli altri ingredienti sono un trito composto da mezza cipolla , una carota ed un gambo di sedano, 15 grammi di funghi porcini secchi, tre etti di bietole e 150 grammi di pomodori pelati, sale e pepe quanto basta. Ricordatevi di servire la zuppa con fette di pane abbrustolito e buon appetito.

Dedicata a Gloria e a mio figlio Ferruccio

LA MORTE PUO’ESSER VISTA COME UNO SPOSO?

Costruito alla metà del XIX° secolo su progetto di Carlo Barabino e di Giovanni Battista Resasco, il cimitero monumentale di Staglieno è da tutti considerato come uno dei più interessanti ed importanti camposanti del mondo per la quantità delle tombe monumentali che si susseguono in doppia fila nei suoi lunghi corridoi. tra queste ce n’è una realizzata dallo scultore Giovanni Battista Villa ( Genova 1832 – 1899) per il cavalier Antonio Montanaro che vi voglio raccontare per la sua originalità. Una fanciulla vestita all’antica e coronata da un serto di fiori, con un’ampolla accende la fiamma ad un candelabro avente sette bracci, curioso il fatto che il numero sette sia ricorrente nelle sacre scritture, sette sono i vizi capitali e sette le virtù, sette sono i sigilli spezzati dall’angelo nell’Apocalisse di San Giovanni etc. etc. ritornando alla nostra scultura a sinistra, completano l’iconografia, un’anfora dell’olio, un ramo di palma e tralci d’ulivo che adagiati sul pavimento trasmettono messaggi allegorici di gloria e di pace. Questa scena è stata ispirata all’artista dalla parabola delle vergini sagge ( Vangelo di Matteo 25, 1-13 ) che a differenza delle stolte andarono incontro allo sposo nella notte portandosi dietro, oltre che le lampade, anche i vasi d’olio per alimentare le fiamme, restando in vigile attesa d’un appuntamento del quale non conoscevano né il giorno né l’ora, così come avviene per la fine della nostra vita. Singolare è l’identificazione dello sposo con la morte, intesa non come la fine di tutto ma come rinascita in Cristo, contestualmente la fiamma ci ricorda che la memoria del defunto deve essere sempre alimentata per poter superare le nebbie dell’oblio. La scena rappresentata è posta all’interno d’una imponente struttura architettonica neo-rinascimentale con al centro una grande croce che come fondale sovrasta le immagini scolpite, originariamente il bianco statuario della vergine saggia spiccava in forte contrasto con il bronzo dorato del candelabro oggi non più visibile dato l’accumulo pluricentenario di polvere grassa sopra il monumento. Questo originale soggetto realizzato dal Villa fu poi replicato dal Nostro per un’altra tomba nel camposanto di Buenos Aires. Giovanni Battista Villa, formatosi alla scuola di scultura dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, lavorò soprattutto a Genova nel periodo del passaggio stilistico dallo stile realista ad un pre-simbolismo soffuso di mistero, così come detto dalla prof. ssa Giovanna Rotondi Terminiello.

I LAVATOI DEI SERVI

I Lavatoi dei Servi furono l’unica opera pubblica realizzata a Genova nell’evanescente periodo della Repubblica Democratica patrocinata dai francesi, originariamente furono costruiti in via dei Servi sul lato opposto del Rio Torbido, una strada di bottegai, artigiani e popolino per cui quest’opera rispose ad una precisa esigenza di servizio pubblico. Il Barabino, che ne fu l’artefice, sul progetto scrisse di suo pugno: ” …fatti nel 1797 in tempo de’ birboni…” questo per chiarire quanto dovesse essere amato di lì a pochi anni dopo questo “rivoluzionario” periodo storico. La costruzione in stile neoclassico ha un fronte a cinque fornici sormontati da un timpano triangolare sul quale si può leggere: “AL POPOLO SOVRANO, GLI EDILI, LIBERTA’, EGUAGLIANZA, L’ANNO PRIMO DELLA REPUBBLICA LIGURE DEMOCRATICA MDCCXCVII”. Molti anni dopo, negli anni 70 del secolo scorso, uno sciagurato disegno fu portato a compimento, la distruzione quasi totale della “Cheullia” uno dei più antichi e caratteristici quartieri di Genova, con essa scomparvero in una nuvola di calcinacci e macerie la via Madre di Dio, il borgo dei Lanaioli , la via dei Servi ed il passo di Gattamora dove era la casa di Nicolò Paganini. I lavatoi furono risparmiati, smontati e ricostruiti sotto via del Colle vicino a quello che rimane delle antiche mura erette dai genovesi per far fronte agli eserciti dell’imperatore Federico Barbarossa, che giurò di trucidare tutti gli abitanti di Genova stante che si rifiutarono ostinatamente di firmargli un atto di sottomissione. Da allora sono lì abbandonati e preda di vandali e dell’incuria, muto grido di protesta ai giardini sottostanti che furono pomposamente chiamati Baltimora e che i genovesi invece chiamano, in senso dispregiativo, di Plastica. Recentemente il Comune ha deciso un restyling di quest’area in modo da renderla fruibile a tutta la popolazione, é stato detto: ” Il progetto di recupero ( dei giardini Baltimora ) parte dall’obiettivo di rendere i giardini un luogo vivo ed accogliente, dove l’armonia della natura possa innescare la vita sociale, restituiamo alla città un giardino da vivere….” Speriamo che sia vero. qualche segno tangibile in tal senso si comincia a vedere.

CASTELLACCIO DI NOME E DI FATTO

A Genova, dopo il capolinea della funicolare del Righi, imboccando via Peralto, che anticamente era un percorso militare sterrato, si arriva al Forte Castellaccio, visibile solo d’inverno quando cadono le foglie dagli alberi altrimenti è praticamente invisibile circondato come é da una folta vegetazione. Il sito fa venire in mente la favola della Bella addormentata nel bosco, dove una fata malvagia, con un’incantesimo, nascose la reggia e tutti i suoi abitanti in un’intricata foresta di rovi, anche qui sembra che i genovesi abbiano fatto di tutto per dimenticare questa fortezza, che nata come difensiva fu usata anche per scopi molto diversi da quelli per la quale fu costruita. Le prime notizie riguardo ad opere militari in questo sito risalgono all’inizio del XIV secolo quando i “Guelfi ” vi edificarono un castello con un fossato del quale non é rimasto più nulla, dalle illustrazioni dell’epoca sembra avesse due torri quadrate circondate da mura; nel ‘500 e nel ‘600 venne rappresentato come un corpo massiccio e con una specie di torre nella parte centrale, sin dal XVI° secolo qui venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione, il sito veniva raggiunto per una via che si chiamava Salita dell’ Agonia e, avvenuto il decesso del reo, la bara veniva trasportata percorrendo la Salita della Morte ( il nome delle due vie fu poi cambiato a seguito di un’accorata richiesta dei residenti ) , successivamente nel 1818, con l’annessione al regno di Piemonte e Sardegna, furono iniziati dei lavori di completa demolizione della antiche strutture e di ricostruzione che trasformarono il Castellaccio nella fortezza che ancora oggi é esistente. Il nuovo Castellaccio fu un forte autonomo avente una capiente cisterna per la conservazione dell’acqua, magazzini per i viveri e due forni che potevano sfornare 640 razioni. il suo scopo non era puramente difensivo ma anche quello di sedare con le sue artiglierie le eventuali sommosse popolari né….. perché ” boja Faùss” questi genovesi riottosi ad accettare le decisioni di quelli che contano, così ” balenghi e ciaparat” che appena gli si fa uno sgarbo cominciano a tirare pietre e tutto quello che gli capita sotto mano in testa a chi comanda, è meglio tenerli sempre con la coda tra le gambe ( persino ai Grifoni che reggono lo stemma della città fu imposto di rappresentarli da allora in avanti con la coda tra le gambe in segno di sottomissione ). La dotazione delle artiglierie del forte comprendeva otto cannoni da 32, quattro da 16, cinque da 8 , tre obici lunghi e due corti, oltre che cinque mortai e e dodici cannoncini. Arrivati al XX* secolo il Castellaccio fu usato durante la prima guerra mondiale come campo di concentramento per i prigionieri austriaci e teatro di fucilazioni di partigiani durante la seconda, insomma un passato pregno di tragedie da dimenticare. Una curiosità, sino alla fine degli anni quaranta del secolo scorso dal Castellaccio un pezzo d’artiglieria sparava un colpo di cannone a mezzogiorno.

VILLA SERRA ..UN EDIFICIO SINGOLARE

A Genova, vicino alla centralissima Piazza Corvetto, svetta una costruzione in stile neogotico realizzata come un piccolo castello, che da tempi biblici é in restauro: il Museo e la Biblioteca dall’attore. Questa singolare costruzione che ha su uno dei suoi spigoli una torre sulla cima della quale si gode un panorama stupendo spaziando a 360° da est a ovest sull’intera città, apparteneva ai marchesi Serra da cui il toponimo. Nel XIX° secolo fu adibita a caffè alla moda e frequentata dalla Genova “Bene “, Luigi Augusto Cervetto nel suo scritto ” L’ Acquasola dai tempi lontanissimi al presente ” edito nel 1919 definisce la Villetta Serra così :” …. osservandola ad una certa distanza essa sembra una fantasia di poeta. ” Questo ritrovo era illuminato alla sera da luci disposte artisticamente e rallegrato da concerti musicali, il caffè veniva aperto in primavera e chiuso all’inizio dell’autunno, sinché nel 1888 fu venduto dai Serra al Comune di Genova per la cifra di 550.000 lire. Il Municipio fece tagliare alcuni alberi secolari per poter costruire nel giardino adiacente un teatro che alternava spettacoli diurni e serali mentre l’edificio fu adibito a sede del Genoa per 13 anni, poi del Club Alpino Italiano per 31 anni sino al 1958, dopo di ché, come detto sopra, fu adibito a museo e biblioteca dell’ attore. Speriamo in questo secolo di poterlo vedere senza impalcature e riportato alla sua originale bellezza.

L’APOTEOSI di SAN FILIPPO NERI

Girovagando per Genova, vicino a largo della Zecca, chiamato così perché sede della Zecca di Genova, trasferita lì nel 1842 da piazza Caricamento dove aveva la sua storica sede ora non più esistente, si diparte una strada dichiarata patrimonio mondiale dell’UNESCO, la Via Lomellini, una via imperdibile per il curioso viaggiatore, perché è la cartina di tornasole che presenta in modo esemplare il centro storico di Genova. Come quando a teatro si apre il sipario e comincia uno spettacolo, l’effetto di questa strada e pressappoco lo stesso, uno splendido palazzo barocco appartenuto ai marchesi Pallavicini ed altre dimore secentesche fanno da cornice a bar, focaccerie con tavoli all’aperto e negozi di alimentari, qui é la casa dove nacque Giuseppe Mazzini con il suo bell’ingresso neoclassico ora museo del Risorgimento e lo stupendo oratorio di san Filippo Neri capolavoro del periodo rococò, vicino è la chiesa filippina che con la sua facciata disadorna e grigiastra viene ignorata dai più, ma se entrerete in questo tempio terminato nel 1712 e costruito per volontà del nobile Camillo Pallavicini , resterete attoniti nell’ammirare la volta sagomata a botte decorata a fresco dal grande quadraturista Antonio Haffner (1654 – 1732 ) con l’apoteosi di San Filippo Neri dipinta dal grande pittore bolognese Marcantonio Franceschini ( 1648 – 1712 ). Tra le stupende opere d’arte qui custodite ogni tanto si nota una stella a cinque punte che é il simbolo dei padri filippini. Per costruire questa chiesa fu demolito il palazzo degli Adorno, dove visse con il marito Giuliano quella che poi salì alla gloria degli altari con il nome di Santa Caterina da Genova, in una cappella laterale a sinistra, per tradizione, si dice che lì era la camera da letto della santa. il cui corpo incorrotto giace in una teca di cristallo nella chiesa della S.S. Annunziata di Portoria.

L’Acqua santa di Genova

Nell’estremo ponente della città di Genova, tanti tanti anni or sono, in una boscareccia di castagni secolari dove era ed ancora scorre il torrente Leira , secondo una leggenda, una sera dei pastori videro una luce arcana riflettersi sulle acque e vicino a questa una statua lignea della Madonna sotto la quale sgorgava una fonte sulfurea che presto si disse avesse poteri miracolosi. Le prime notizie d’una cappella costruita in quei luoghi risalgono al 1465, intorno a questo centro di devozione sorse presto un abitato a cui fu dato il nome di Acquasanta, detto inter nos pare che anche in epoca pre – cristiana esistesse in loco un tempietto pagano dedicato alla ninfa Eja dalla quale sarebbe derivato il nome del torrente ” Leira”. La fama di questa fonte si diffuse presto in tutto il genovesato, tanto da far si che nel 1683 fu posta la prima pietra di quello che é il santuario attuale. Questo tempio terminato nel 1718 su progetto dell’architetto lombardo Carlo Muttone é uno dei santuari mariani più belli della Liguria, al suo interno vi é un altar maggiore spettacolare realizzato da Francesco Maria Schiaffino e dal suo discepolo Carlo Cacciatori nel 1730. La statua della Madonna miracolosa non é lì ma é custodita in una cappelletta tardo settecentesca poco distante, vicina ad un mulino che é adibito a “museo della carta”. La carta genovese era rinomata in tutta l’ Europa del XVIII° secolo, in quest’area si contavano più di 60 cartiere, la carta si faceva con le “strasse” e cioè con degli stracci di lino e canapa che venivano battuti da dei “pilli” ( una specie di pestelli) in vasche di pietra sino a ridurli in poltiglia che poi passata nei telai e nei feltri si trasformava in carta. Questa fiorente industria andò in crisi all’inizio del XIX° secolo con l’ avvento della macchina a vapore sino a sparire quasi del tutto.

L’antica cartiera dei “Piccardo” attiva dal XVIII° secolo ed oggi adibita a museo della carta.

Da Collegio per i Gesuiti a Università

A Genova, nella prestigiosa via Balbi, tra il 1634 ed il 1636 fu realizzato su un’area venduta dai Balbi ai Gesuiti uno splendido palazzo, l’architetto che lo progettò fu Bartolomeo Bianco e per molti anni l’edificio fu adibito a collegio per i Gesuiti, solo nel 1773 la Serenissima Repubblica di Genova lo adibì ad Università degli studi. Un anonimo viaggiatore del 1818 nella sua ” Descrizione della città di Genova” così lo descrive: “….sono da ammirarsi due belle facciate, sulla gran strada…. lo stile della sua architettura lo rende uno dei più pregiati di Genova, ….Per una grande e maestosa marmorea scala, avente in testa due leoni in marmo maestrevolmente scolpiti da Domenico Parodi di Filippo (*) …intorno a cui al di sopra son 12 colonne di marmo disposte, quattro innanzi in due gruppi, e otto ai lati, ascendesi al cortile. E’ questo pur circondato da portici spaziosi aventi un bel colonnato in marmo e a ordine dorico in gruppi distribuito, cioè quattro per parte e due ai lati minori in faccia, più otto colonne ai quattro piloni agli angoli del quadrato, in tutto in numero di trentadue.” Nel secondo quarto del XVII secolo i Carmelitani chiesero ed ottennero il permesso di costruire una loro chiesa nella via Balbi proprio a ridosso dello splendido collegio dei Gesuiti , cosa che questi ultimi non gradirono ed in barba alla cosiddetta carità cristiana, fecero fuoco e fiamme per impedire ai Carmelitani di costruire la loro chiesa che, paradossalmente, fu progettata dallo stesso architetto ( Bartolomeo Bianco ) che aveva precedentemente progettato il loro collegio, dalle male parole presto passarono ai fatti, dispetti di tutti i generi, sassaiole e ferimenti, sinché la giustizia secolare giudicò inesistenti le ragioni dei Gesuiti ( i Carmelitani avrebbero tolto a loro l’aria ) e la vertenza fu risolta a favore dei monaci del Carmelo.

( *) in realtà i leoni furono scolpiti da Francesco Biggi ( Genova 1676 -1736 ) uno dei più valenti collaboratori di Filippo Parodi, di Domenico Parodi é il solo progetto.

Niobe, la regina blasfema a Palazzo Reale

Nel Palazzo Reale di Genova e più precisamente nella sala detta degli “Arazzi “, se ne può ammirare uno della manifattura di Faubourg Saint-Marcel di Parigi databile al primo decennio del XVII° secolo, realizzato in lana, seta, filo d’argento dorato, su anima di seta da Francois De la Planche e da Marc De Comans su cartoni di Toussaint Dubreil. L’arazzo rappresenta ” L’empietà di Niobe “, ora per coloro che non hanno dimestichezza con i miti greci e con le ” Metamorfosi ” di Ovidio spiego che Niobe, figlia dello sfigatissimo re Tantalo, ricordato per il suo singolare supplizio infertogli da Zeus, regina ricca e potente, partorì 7 figli e sette figlie bellissime. In occasione d’una festività dedicata a Leto alias Latona madre di Febo Apollo e di Artemide, pretese che gli onori ed i sacrifici destinati alla dea fossero piuttosto a lei dedicati, giacché lei ne aveva partorito 14 di figli, mentre la dea solo due. Ora si sa che gli dei dell’ Olimpo s’incavolavano per un nonnulla, figuriamoci per una mortale che osava paragonarsi a loro, così Lete chiamò a rapporto i suoi due figli chiedendo loro di vendicarla, immediatamente Apollo prese il suo arco d’argento e uccise i sette figli maschi di Niobe e Artemide ( la Diana dei romani ) in un secondo tempo, fece fuori le sette figlie. La povera Niobe disperata chiese perdono a Zeus il re degli dei che, pietosamente, si fa per dire, la trasformò in una roccia sul monte Sipilo in Lidia dalla quale sgorga una sorgente perenne, che non é altro che le lacrime della regina blasfema condannata a piangere per l’eternità. L’iconografia rappresentata nell’arazzo ci mostra in basso a sinistra la regina Niobe circondata da una folla festante mentre sullo sfondo è la statua di Leto a braccia aperte con nelle sue mani i simboli che contraddistinguono i suoi figli il sole e la luna.

Mazone al Santuario di N.S. del Monte

Dopo il sacco di Genova del 935 d.C., perpetrato dai saraceni che avevano messo a ferro e fuoco la città, su di un monte che domina la parte orientale di Genova, i genovesi in fuga scorsero una luce straordinaria che fu interpretata come un buon augurio. Alcuni anni dopo i genovesi vollero consacrare questo monte all’ Assunta edificandovi sulla sommità una cappella che custodiva una immagine della Vergine. Questa cappelletta nel 1183 fu demolita ed in sito fu costruita una nuova chiesa ed un monastero da parte dei monaci dell’abbazia di Santa Croce di Mortara. Nel XV° secolo il complesso religioso fu abbandonato dai Mortariensi ed andò presto in rovina, a questo punto arrivarono i Francescani che sulle macerie della chiesa primitiva ne costruirono una più ampia a tre navate ed un nuovo convento. Nei primi anni del XVII° secolo ebbe inizio la costruzione del Tempio oggi esistente terminato nel 1658 in forme barocche. Tra le tante opere d’arte custodite nel santuario si può ammirare il polittico dell’ Annunciazione e santi che recentemente é stato attribuito quale opera giovanile del pittore Giovanni Mazone ( Alessandria 1433 – Genova 1511 ), questo maestro possedeva una fiorente bottega a Genova nella contrada di San Siro e pur essendo un artista di primo piano al suo tempo, il “Rinascimento ” e più tardi il ” Manierismo ” lo fecero presto dimenticare, le sue opere furono trascurate, disperse, smembrate e talvolta irrimediabilmente perdute, solo dopo molti secoli lo storico Alizeri dichiarò che il Mazone fu un artista di primo piano nella seconda metà del 400, pittore che talvolta esercitava anche la professione di intagliatore e scultore, peraltro arte assai diffusa tra i pittori dell’epoca, per esempio per costruire le cornici ai loro dipinti, cornici talvolta monumentali e veri e propri capolavori d’intaglio, perché le cornici, a quel tempo, non erano considerate semplici raccordi spaziali ma parti integranti del dipinto stesso.

Niccolò Paganini ( Genova 1782 -1840 ) un genio homeless

Se giunti a Genova vi inoltrerete nei Giardini Baltimora, quelli che i genovesi chiamano “Giardini di Plastica ” , e da questo si capisce come siano stati da sempre considerati una “chiavica “, ad un certo punto vi troverete davanti ad un muretto infestato da erbacce sul quale é posta una malinconica targa marmorea quasi invisibile ai frettolosi passanti, su quella targa é scritto che il grande violinista Niccolò Paganini aveva casa lì in vico Gatta Mora, distrutta nel 1971 come tutto il quartiere di via Madre di Dio per far posto ai giardini ed ad un moderno complesso in ferrocemento. Ci voleva un Principe per onorare questo personaggio che diede lustro e fama alla nostra città, un violinista considerato anche oggi, all’inizio del terzo millennio, il più grande. Domenica 24 Ottobre 2021, il principe Pallavicino, presidente dell’omonima fondazione, il suo direttore artistico Vittorio Sgarbi ed il sindaco Bucci hanno inaugurato, innanzi all’ ingresso del Teatro Carlo Felice, una grande statua in bronzo dorato che lo rappresenta realizzata dallo scultore Livio Scarpella da Brescia. Lo Scarpella, prendendo spunto da un disegno di Jean Auguste Dominique Ingres che ritrae Paganini in posa statica, ha reinterpretato questa immagine dandole vita, il bronzo colpito dalla luce non è più semplice rappresentazione d’un eccelso violinista, ma, anche grazie allo studio fisiognomico e psicologico fatto dal Nostro, sembra divenire un tutt’uno con il suo strumento. Paganini suonò per l’ultima volta in questo teatro nel 1836, lo chiamarono violinista del Diavolo e lui non fece mai nulla per smentire queste dicerie ed anche in questa statua sul suo viso grifagno un qualcosa di diabolico si può scorgere ancora.

NON CANNONATE MA PICNIC PER I SOLDATI DEL RE

A Genova nel secolo XI° , a 161 metri s.l.m., sorgeva una chiesetta dedicata a Santa Tecla oggi non più esistente, in sito, già al tempo della guerra di Successione austriaca ( 1747 ), fu progettata la costruzione d’un forte dall’omonimo nome, che avrebbe dovuto difendere dall’alto i quartieri d’ Albaro e di San Martino. Nel 1800 la fortificazione di Santa Tecla, collegata con il forte Richelieu, costituì il baluardo che avrebbe dovuto difendere la città dagli attacchi di nemici provenienti da oriente, per far ciò, il forte fu munito di 6 cannoni da 24, cinque da 8 , cinque obici lunghi e ben 200 cannoncini. Fatti bellici di rilievo riguardanti questa fortezza francamente non ne ricordo se non uno veramente singolare: durante i moti genovese del 1849, dopo che il re Vittorio Emanuele II firmò l’armistizio di Vignale con L’Austria, il forte fu occupato dagli insorti, ma quando le truppe regie circondarono la fortezza ed intimarono la resa ai suoi occupanti, questi, dopo circa una mezz’ora, ammainarono la loro bandiera ed aprirono le porte, quando i soldati sabaudi penetrarono nel fortilizio, con circospezione pensando ad un’imboscata, insieme ad un silenzio assordante non trovarono nessuno… solo una mensa imbandita e null’altro. Il forte di Santa Tecla restaurato a partire dal 1982 fu chiuso in attesa che il comune di Genova decidesse la sua destinazione, intanto, nelle lungaggini burocratiche, un gruppo di vandali riuscì a penetrare nel complesso deturpando, distruggendo ed incendiando il tetto della caserma. Oggi il forte é nuovamente in fase di restauro, fortunatamente presidiato dai volontari della Protezione Civile.
Stemma marmoreo sabaudo posto sulla porta del forte di Santa Tecla ancora esistente nel 2021

UN’ALLEGORIA FASCINOSA

Nel centro storico di Genova e più precisamente nella Via Lomellini dichiarata dall’ UNESCO patrimonio mondiale dell’ Umanità, dove chi scrive abitò per tre anni, é una chiesa dedicata a San Filippo Neri, in questo tempio che con il suo oratorio é considerato quale uno dei più splendidi esempi dello stile rococò genovese, é la cappella di San Francesco di Sales, qui é collocata una statua il cui artefice fu Domenico Parodi ( Genova 1672 – 1742 ) figlio del grande Filippo allievo del Bernini, dal quale aveva ereditato la bottega e soprattutto i suoi collaboratori tra i quali Francesco Biggi. La statua in marmo bianco raffigura l’allegoria della “Purezza” che il Nostro immagina come una giovinetta coronata di fiori ed avvolta in una serica tunica recante in mano una colomba, i suoi occhi sono socchiusi, l’espressione del viso trasmette pace e serenità così come è illuminata da un dolce sorriso. La colomba fu usata dagli artisti, oltre che per raffigurare la purezza, anche quale allegoria dell’ “Innocenza”.

Il “Poverello di Assisi ” a Genova é nel quartiere dei ricchi

La chiesa di San Francesco d’ Albaro fu costruita a lato d’un antico percorso viario che dal quartiere di San Martino conduceva al mare. Già nel XIII° secolo esisteva in quest’area una chiesetta dedicata a San Michele Arcangelo non più esistente, l’attuale parrocchiale, con annesso convento, fu costruita a partire dalla prima metà del XIV° secolo e terminata nel 1476. Quando la chiesa dei Santi Nazario alias Nazaro e Celso costruita nel X° secolo sulla “Ripa Maris ” sopra una scogliera fu distrutta dalle violente mareggiate che in inverno flagellano quel tratto di costa, la chiesa di San Francesco, nel 1544, fu dedicata anche a loro. Albaro é un quartiere genovese che sino al XIV° secolo secolo era scarsamente popolato, poi tra il XVI ed il XVIII° secolo fu la grande nobiltà genovese a diventare protagonista in quest’ area costruendo palazzi di villeggiatura e grandi ville con splendidi giardini rendendo il paesaggio così idilliaco ed ameno da far scrivere nel 1630 a Anton Giulio Brignole Sale : “…imitando l’ Alba col nome ( Albaro in lingua genovese è Arbà ) viene a superarla in vaghezza”. Ora, nel terzo millennio, questo quartiere di Genova é sempre sinonimo di agiatezza e zona Chic. Singolare é che proprio qui sia sorto un tempio dedicato a San Francesco ” il poverello di Assisi “.

THEATRUM MORTUORUM

Genova, data la conformazione del suo territorio, offre pochi parchi in pianura, uno di questi é la spianata dell’ Acquasola all’inizio del Viale IV Novembre. Dalla parte opposta del viale è un elegante palazzo neoclassico che è oggi adibito a Tribunale dei minori, ma quando fu edificato tra il 1843 ed il 1846 su progetto dell’ architetto Celestino Foppiani aveva una funzione ben diversa, lo chiamavano ” Regio Teatro Anatomico ” , sulla sua elegante facciata neoclassica, al piano terreno dell’edificio, vi sono sei tondi con i profili di personaggi che furono famosi anatomisti quali Andrea Vesalio ed il Morgagni, questo dovrebbe chiarire a cosa era destinato questo palazzo, in pratica vi si portarono i cadaveri provenienti dall’ospedale di Pammatone che qui venivano lavati ed ai quali si faceva l’autopsia. Il Foppiani, artefice di questa costruzione, fu assai criticato dai suoi contemporanei perché, si disse, aveva voluto privilegiare la bellezza estetica della costruzione rispetto alla praticità per quel che doveva servire, in sostanza sacrificò gli spazi interni, che risultarono angusti, le luci erano scarse e le prese d’aria insufficienti proprio lì dove erano poste le sale d’anatomia. Meno male che successivamente ne fu cambiata la destinazione d’uso.

A Genova non si butta via niente

Gironzolando per il centro storico di Genova, se capitate in via al Ponte Calvi, ad un certo punto vi troverete a passare davanti al Palazzo Fabiani che prende il nome dal suo ultimo proprietario. Nell’ingresso di questo palazzo risalente al XVI° secolo, restaurato una trentina d’anni or sono ed oggi adibito ad uffici, in una nicchia, troverete un albero di maestra d’un vascello cinquecentesco, ma che ci fa lì un albero di nave? ebbene durante i lavori di restauro si notò la presenza dell’albero che fu reimpiegato come trave portante del solaio del grande salone del terzo piano nobile, una caratteristica tipica usata nelle costruzioni genovesi in cui é sempre presente la tendenza al riutilizzo di qualunque materiale sia lapideo che ligneo, in questo caso proveniente dal disarmo d’una nave, perché alle navi erano destinate le essenze migliori e le stagionature più accurate. Dopo aver accertato che l’albero s’era spezzato e quindi avrebbe dovuto esser rimosso dalla sua sede originale, il tronco é stato sostituito con una nuova trave. Esaminando il manufatto con la dovuta attenzione si é constatato che il tronco é in pitchpine, una essenza lignea tipica delle zone fredde del nord e da uno studio degli anelli di crescita della pianta, si é accertato che l’albero in origine fu scortecciato in modo da eliminare l’alburno ( parte più esterna del tronco che é meno robusta ) perché il durame ( parte più interna del tronco ) é maggiormente dura e meno attaccabile dagli insetti, si può ipotizzare che il taglio sia avvenuto intorno al 1510 . L’albero di questa nave di cui ignoriamo il nome, ha una decorazione policromatica che comprende un’invocazione con una formula che serviva per allontanare gli influssi magici maligni e lo stemma della famiglia “Castello” in una iconografia che è tipica del periodo cinque/seicentesco. Nulla si sa invece di quando, quest’albero di nave, sia stato impiegato come trave di sostegno di questo bell’edificio.

“Staglieno” il cimitero che piaceva a Mark Twain

Aperto al pubblico dal primo gennaio del 1851, la struttura complessiva del cimitero monumentale di Staglieno a Genova fu completata verso gli anni ’80 del XIX° secolo, le sue gallerie ed i suoi porticati con i loro gruppi scultorei funerari, sin da subito, suscitarono un grandissimo interesse nei visitatori e nei turisti provenienti da tutto il mondo, tanto da far scrivere a Mark Twain :”…Da una parte all’altra ( dei porticati ), avanzando nel mezzo del passaggio, vi sono monumenti, tombe, figure scolpite squisitamente lavorate, tutte grazia e bellezza. Sono nuove, nivee, ogni lineamento é perfetto, ogni tratto esente da mutilazioni, imperfezioni o difetti; perciò, per noi, queste lunghissime file d’incantevoli forme sono cento volte più belle della statuaria danneggiata e sudicia salvata dal naufragio dell’arte antica ed esposta nelle gallerie di Parigi per l’adorazione del mondo.” Questo scriveva il Twain nel 1867, se tornasse oggi a Staglieno noterebbe che, purtroppo, di “niveo” é rimasto ben poco, i gruppi scultorei sono lerci a causa della polvere centenaria che lì si é depositata, la manutenzione è approssimativa ed i restauri, molto spesso, possono contare solo su fondazioni private che intervengono per salvare questi capolavori dai danni inferti dal tempo e dall’incuria di chi dovrebbe invece salvaguardarli. Ogni tanto, l’attento visitatore, ne può scorgere qualcuno che è stato restaurato e riportato alla sua primitiva bellezza come questo gruppo statuario realizzato nel 1882 da Antonio Rota ( Genova 1842 – 1917 ) * per la famiglia Gnecco. In questo artista il tema del “distacco”, come in altre sue sculture, risente della sua poetica legata al ” realismo borghese”. Il Rota propone al riguardante una precisa narrazione, che ci mostra a sinistra una giovane donna inginocchiata a mani giunte con vicino il fratellino che l’abbraccia affettuosamente tenendo in mano il suo cappello, entrambi fissano una porta sbarrata che mai s’aprirà, rappresentante la vita terrena ormai preclusa ai trapassati, l’angelo, alla loro destra li guarda compassionevole ed indica loro il “Cielo” dove l’anima (della madre? ) sta raggiungendo quattro bimbi che fanno capolino tra le nubi e l’accolgono festosi. Gli abiti e le acconciature dei personaggi rappresentati sono contemporanei a quando l’opera scultorea fu realizzata, caratteristica peculiare dello stile detto “Realismo Borghese” che si affermò anche a Genova nella seconda metà del XIX ° secolo.

  • Antonio Rota ( Genova 1842 – 1917 ) all’età di soli 12 anni fu messo a “bottega” nell’atelier dello scultore Santo Varni, dopodiché, probabilmente dopo i sei anni di apprendistato, si iscrisse all’ Accademia Ligustica di Belle Arti, tra il 1870 ed il 1873 espose alle Promotrici Genovesi partecipando ad esposizioni internazionali come quella di Vienna nel 1873 e quella di Parigi nel 1878 , nel cimitero monumentale di Staglieno, oltre la tomba Gnecco, il Nostro realizzò le tombe per le famiglie Campostano, Balleri, Carrara e Berretta.